Fare squadra per dare fiducia alle vittime
A veder scorrere il rullo delle agenzie di stampa sembra di essere tornati indietro di un quarto di secolo. Sono gli stessi titoli della rivolta dei commercianti di Capo d`Orlando, gli stessi della denuncia di Libero Grassi, gli stessi della vigilia della sua uccisione per quel suo ‘no’ detto alla mafia del pizzo. C`è voluto tanto tempo, troppo tempo, perché trentasei commercianti e imprenditori trovassero la forza di rivolgersi allo Stato e dImettere la firma sotto l`atto di accusa contro boss di vecchia e nuova generazione. Qualcuno lo ha fatto perché si è fatto coraggio, qualche altro perché il coraggio lo ha trovato dopo la spintarella del pentito Sergio Flamia, che ai magistrati ha fatto i nomi di vittime e carnefici del racket in terra di Bagheria, il mandamento che fu il regno di Bernardo Provenzano, da nove anni ormai al carcere duro. Leggo i titoli della ‘rivolta degli onesti’ e immagino il sorriso amaro di Libero Grassi, che sarebbe stato contento perché la sua vita non era stata perduta invano e la vittoria finalmente arrivata: in ritardo, stentata, sospirata ma lungamente attesa. E spero che questa volta non sia un fuoco di paglia e che ci sia davvero, in Sicilia, la voglia di voltare pagina e chiudere per sempre un capitolo tragico della sua storia. Capitolo lunghissimo, segnato da lutti e da speranze tradite, da mobilitazioni collettive che sembravano destinate a sovvertire i sistema mafioso e che si sono scontrate con gli scandali degli ultimi mesi che hanno travolto i portabandiera di quella rivoluzione culturale che va sotto il nome di antimafia, da Montante a Helg fino al giudice Saguto.
Ecco, a Bagheria ha vinto quella parte di società civile che, nonostante tutto, ha continuato a credere alla possibilità di un mondo senza cosche, di lavoro senza tangenti, di una vita vissuta dignitosamente senza più sudditanza agli esattori delle tangenti. E che si è fidata dello Stato, dei carabinieri e della Procura. Per disperazione o per precisa volontà ha poca importanza, ma quei trentasei imprenditori e commercianti, insieme o in ordine sparso, hanno compreso che nonostante le brutte cose degli ultimi tempi, nonostante la rovinosa caduta di molti simboli della loro stessa battaglia, lo Stato colluso e amrniccante di qualche anno fa non esiste più e che le singole deviazioni non intaccano un sistema che combatte Cosa Nostra con costanza e grande professionalità.
Ma la storia di Bagheria impone delle riflessioni. La retata di `eri mattina ha confermato che la lotta al racket è lotta di squadra: il singolo imprenditore da solo fa poca strada, frenato nella denuncia dalla paura (umana e giustificata dalla violenza degli esattori), dall`ostracismo di chi non ritiene di fare la stessa scelta, dai tempi lunghi della giustizia, dalla preoccupazione per la sorte futura. Tutti insieme ci si fa compagnia, ed è per questo che da Capo d`Orlando in poi sono nate decine di associazioni antiracket. Che a Bagheria (e non solo) non hanno però centrato l`obiettivo o lo hanno fatto con estremo ritardo.
Non è un dettaglio di poco conto il fatto che, salvo l`eccezione di tre imprenditori, tutti gli altri si siano rivolti, con la mediazione delle associazioni, ai carabinieri dopo la segnalazione del pentito Flamia, che del mandamento di Provenzano è stato il cassiere. Accade decine di volte anche in Campania, con la denuncia controfirmata solo dopo le confessioni dei camorristi che incassavano le rate del pizzo e dopo la scoperta dei libri mastri, con tanto di nome delle vittime e dell`importo pagato.
Non è un dettaglio da poco perché è rivelatore di sfiducia, di diffidenza nei confronti delle associazioni antiracket e, soprattutto, di rassegnazione.
Evidentemente, gli indubitabili successi di investigatori e magistrati non sono riusciti, in venticinque anni, a rimuovere la sensazione di ineluttabilità della sudditanza alle mafie che anima lo spirito e la mente di chiunque faccia impresa o commercio al di sotto della linea del Garigliano.
La lezione che arriva dalla Sicilia non può, dunque, essere sottovalutata. C`è bisogno di continuare a lavorare per riannodare i fili tra cittadini e istituzioni giudiziarie, c`è necessità di rimboccarsi le maniche e affinare l`offerta a chi trova il coraggio di prendere posizione contro le mafie: ampliando il ventaglio delle tutele – proposte interessanti sono contenute nella relazione presentata la settimana scorsa dal gruppo di lavoro sui testimoni di giustizia, istituito dal mìnìstero dell`Interno, e in quella della commissione antimafia, approvata alcuni mesi fa – e riducendo al minimo il tempo per le provvidenze (non solo economiche) a chi ha bisogno e diritto alla protezione della legge. Che non può permettersi di non essere rapida ed efficiente.
L`alternativa è che l`altra industria della protezione, quella mafiosa, che di rapidità ed efficenza ha fatto il suo marchio di fabbrica, prenda il sopravvento, piegando con le armi la disperazione e riducendo al silenzio chi rivendica il diritto alla libertà di essere cittadino imprenditore.
Ecco, a Bagheria ha vinto quella parte di società civile che, nonostante tutto, ha continuato a credere alla possibilità di un mondo senza cosche, di lavoro senza tangenti, di una vita vissuta dignitosamente senza più sudditanza agli esattori delle tangenti. E che si è fidata dello Stato, dei carabinieri e della Procura. Per disperazione o per precisa volontà ha poca importanza, ma quei trentasei imprenditori e commercianti, insieme o in ordine sparso, hanno compreso che nonostante le brutte cose degli ultimi tempi, nonostante la rovinosa caduta di molti simboli della loro stessa battaglia, lo Stato colluso e amrniccante di qualche anno fa non esiste più e che le singole deviazioni non intaccano un sistema che combatte Cosa Nostra con costanza e grande professionalità.
Ma la storia di Bagheria impone delle riflessioni. La retata di `eri mattina ha confermato che la lotta al racket è lotta di squadra: il singolo imprenditore da solo fa poca strada, frenato nella denuncia dalla paura (umana e giustificata dalla violenza degli esattori), dall`ostracismo di chi non ritiene di fare la stessa scelta, dai tempi lunghi della giustizia, dalla preoccupazione per la sorte futura. Tutti insieme ci si fa compagnia, ed è per questo che da Capo d`Orlando in poi sono nate decine di associazioni antiracket. Che a Bagheria (e non solo) non hanno però centrato l`obiettivo o lo hanno fatto con estremo ritardo.
Non è un dettaglio di poco conto il fatto che, salvo l`eccezione di tre imprenditori, tutti gli altri si siano rivolti, con la mediazione delle associazioni, ai carabinieri dopo la segnalazione del pentito Flamia, che del mandamento di Provenzano è stato il cassiere. Accade decine di volte anche in Campania, con la denuncia controfirmata solo dopo le confessioni dei camorristi che incassavano le rate del pizzo e dopo la scoperta dei libri mastri, con tanto di nome delle vittime e dell`importo pagato.
Non è un dettaglio da poco perché è rivelatore di sfiducia, di diffidenza nei confronti delle associazioni antiracket e, soprattutto, di rassegnazione.
Evidentemente, gli indubitabili successi di investigatori e magistrati non sono riusciti, in venticinque anni, a rimuovere la sensazione di ineluttabilità della sudditanza alle mafie che anima lo spirito e la mente di chiunque faccia impresa o commercio al di sotto della linea del Garigliano.
La lezione che arriva dalla Sicilia non può, dunque, essere sottovalutata. C`è bisogno di continuare a lavorare per riannodare i fili tra cittadini e istituzioni giudiziarie, c`è necessità di rimboccarsi le maniche e affinare l`offerta a chi trova il coraggio di prendere posizione contro le mafie: ampliando il ventaglio delle tutele – proposte interessanti sono contenute nella relazione presentata la settimana scorsa dal gruppo di lavoro sui testimoni di giustizia, istituito dal mìnìstero dell`Interno, e in quella della commissione antimafia, approvata alcuni mesi fa – e riducendo al minimo il tempo per le provvidenze (non solo economiche) a chi ha bisogno e diritto alla protezione della legge. Che non può permettersi di non essere rapida ed efficiente.
L`alternativa è che l`altra industria della protezione, quella mafiosa, che di rapidità ed efficenza ha fatto il suo marchio di fabbrica, prenda il sopravvento, piegando con le armi la disperazione e riducendo al silenzio chi rivendica il diritto alla libertà di essere cittadino imprenditore.