Con il deposito, nella giornata di giovedì, degli emendamenti in Commissione è entrato nel vivo la discussione sul testo unificato delle proposte di legge in materia di contrasto della misogenia e dell’omolesbotransfobia.
Una legge fortemente voluta dal Partito democratico che – dopo troppi tentativi andati a vuoto non può e non deve perdere l’occasione di dare al paese un segnale importante, nel segno dell’eguaglianza e, della dignità, dell’inclusione. E di farlo senza cedimenti, senza compromessi al ribasso, salvaguardando il lavoro fatto in questi mesi da tutte le forze di maggioranza.
Il testo unificato depositato dal relatore Alessan­dro Zan getta il cuore oltre l’ostacolo, e si spinge oltre i molti tentativi falliti del passato: è infatti un testo consapevole del fatto che l’odio, la discriminazione e la violenza non si contrastano sol­ tanto attraverso lo strumento penale, ma anche e soprattutto attraverso politiche sociali e culturali cli prevenzione e concrete misure di sostegno delle vittime. In una democrazia matura – e riteniamo che l’Italia lo sia, e debba continuare ad esserlo – il diritto penale interviene so- lo quando non c’è alternativa: un diritto penale, dunque, minimo, residuale, ma non per questo meno necessario o efficace.
Le due parti del testo unificato vanno dunque lette assieme: omolesbobitransfobia e misoginia si combattono

anzitutto facendo cultura e prevenzione e, nei casi estremi (purtroppo ancora molto frequenti) si ri­ corre allo strumento penale.
Nulla di nuovo, per il nostro ordinamento e per la nostra tradizione giuridica:la proposta Zan, infatti, interviene su una legge già esistente – la cosiddet­ta legge Reale-Mancino, in vigore dal 1975 e modi­ficata nel 1993 e nel 2006 (dal governo Berlusconi) e ora confluita nel codice penale – per estendere all’istigazione e al compimento di atti cliscrimina­tori e violenti fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere le pene già previste per i crimini d’odio motivati da razza, etnia, nazionalità o religione. Lo fa sulla ba­se di alcuni principi molto semplici. Il primo: riconoscere che l’identità sessuale delle persone – in tutte le sue dimensioni: sesso biologico, ruoli di genere, orientamento sessuale e identità di ge­nere – è un bene prezioso, espressione della dignità individuale. Come tale deve essere oggetto di riconoscimento e tutela, affinché tutte e tutti si sentano parte della comunità, e non debbano più aver paura di essere se stessi. Il secondo: una de­mocrazia matura è capace di proteggere sé stessa dai discorsi d’odio, senza rinunciare al libero con­fronto delle idee. Una democrazia matura, infat­ti, sa distinguere tra libertà di manifestazione del pensiero e istigazione al compimento di atti di­scriminatori e violenti. Si è e si resta liberi di par­ lare, di esprimere opinioni o convinzioni religiose, di esprimere giudizi anche critici su esperienze e stili cli vita: non si è liberi di odiare, incitare alla di­scriminazione e alla violenza, usare le parole co­ me pietre capaci di colpire e ferire le persone, solo per ciò che sono. Questo confine non è incerto, né labile: è stato fissato da più di cinquant’anni di sentenze della Corte costituzionale e in sede di applicazione della legge Reale e della legge Man­cino. Di cosa si ha paura, allora? Di non essere più liberi di odiare o discriminare?
Non sdamo parlando di privilegi, ma di uguaglian­za; non sdamo parlando di istituire una gerarchia tra individui o categorie di soggetti, ma cli dare protezione ad una parte preziosa dell’idendtà per­sonale. Le cronache non ci risparmiano, purtroppo, il racconto di innumerevoli episodi di offese, discrimina­zioni, violenze ai danni delle donne e delle persone Lgbt+: soggettività che vengono at­taccate, derise, cancellate per il solo fatto di esistere. Gio­vedì, di fronte a Montecitorio, abbiamo addirittura dovu­to assistere all’aggressione ai danni di due ragazze, proprio da parte di chi stava manife­stando contro la legge: un fatto gravissimo, che dimostra l’urgenza di approvarla.
C’è molto dolore, c’è un clima intollerabile di odio: di fronte a tutto questo non possiamo voltare la testa dall’altra parte. Come sempre, quando si tratta di approvare leggi che aumentano i diritti e allargano gli spazi della cittadinanza democratica, la domanda cui rispondere è una soltanto: che ti­po di comunità vogliamo essere? Una comunità che esclude o una comunità che abbraccia? Una comunità che vive le differenze come pericoli, o come ricchezze? Non sono domande banali, in tempi di sovranismo e populismo; non sono domande banali, in un momento storico nel quale l’emergenza sanitaria ci ha ricordato il valore del­la coesione sociale e l’importanza di una comu­nità capace di prendersi cura di tutte e tutti, con solidarietà e senso di responsabilità. Ne va della qualità della nostra democrazia: ma la risposta è già contenuta nella Costituzione, nei suoi articoli 2 e 3 che dopo settant’anni continuano a parlar­ci, con la saggezza di un testo ancora vivo e pie­no di futuro.


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