Non basta l’umiliazione dei 12 milioni di euro stanziati ai Centri antiviolenza nel 2017 (che divisi per il numero di donne accolte e sostenute in un percorso di recupero, come ha denunciato Avvenire, fanno poco più di 70 centesimi a vittima). C’è anche la vergogna dei fondi stanziati per l’anno in corso, il 2019, «fondi per cui non è ancora nemmeno iniziato il riparto tra le Regioni» spiega Valeria Valente, senatrice del Pd e da febbraio presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Un ritardo di 10 mesi, «a cui si deve sommare quello medio di altri 8 o 9 delle Regioni per la procedura di effettiva assegnazione» Concretamente questo cosa significa, onorevole?
Che da un anno gli stessi Centri antiviolenza — l’unico baluardo di difesa delle donne vittime di abusi e maltrattamenti nel nostro Paese — non solo non hanno fondi per procedere con le proprie attività, ma non sanno nemmeno se li riceveranno. Un’incertezza che di fatto impedisce la programmazione degli interventi e la stesura di nuovi progetti, oltre che penalizzare (quando non azzerare del tutto) quelli già in corso. A cosa si deve questo ritardo? Banalmente, ai tempi della burocrazia. Nonostante più volte, come Commissione, ci siamo mossi per sollecitare il governo precedente sul Piano di riparto, nulla è stato fatto. E siamo a novembre, quando negli anni precedenti — pur già con un enorme ritardo — si procedeva appena dopo l’estate.
E il nuovo governo?
Si sta muovendo. Proprio questa settimana abbiamo incontrato il premier Conte, che ci ha rassicurati sulla priorità di questo punto. E il ministro per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, che ha insediato mercoledì a Palazzo Chigi la cabina di regia interministeriale sulla violenza contro le donne, ha promesso che in tempi brevi arriveranno i 30 milioni di euro da destinare alla Regioni per finanziare i centri. Sono segnali di un impegno che ci rincuora, ma che va mantenuto.
I reati contro le donne sono gli unici che continuano a non diminuire, nonostante l’Italia negli ultimi anni si sia dotata di norme fortemente punitive nei confronti di chi li commette. Perché?
È vero, il quadro normativo italiano si è arricchito di interventi volti a un inasprimento delle pene sul fronte delle violenze di genere. Dalla legge ne. Come Commissione d’inchiesta siamo impegnati su questo punto costantemente: proprio con gli atenei stiamo approntando piani di collaborazione e sensibilizzazione in tal senso. E poi siamo al lavoro coi tribunali.
Come?
Stiamo svolgendo una prima indagine, attraverso la distribuzione capillare di questionari, su come vengono affrontate le separazioni civili. Ci siamo resi conto, infatti, che l’area al di fuori del penale resta del tutto scoperta a livello di controlli e attenzioni, quando invece moltissime vittime di violenza continuata in famiglia, per paura di denunciare, intraprendono proprio la via della separazione civile per mettere al sicuro se stesse e i propri figli. Ecco, a quel livello le situazioni a rischio dovrebbero essere intercettate e accompagnate con molta più frequenza di quel che avviene. Sempre coi tribunali, poi, abbiamo avviato una serie di verifiche su alcuni casi di denunce archiviate, e poi sfociate in femminicidi. Serve che certi segnali vadano intercettati prima che le donne muoiano.


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