Nascono da un’idea sbagliata le nuove disposizioni del decreto sulla Pa
Le nuove disposizioni inserite dalla camera nel decreto sulla pubblica amministrazione che riducono l`età del pensionamento nel settore dell`impiego pubblico rispetto al settore privato nascono da un`idea sbagliata: quella secondo cui il modo migliore per ‘far spazio ai giovani’ consista nel mandare in pensione prima i sessantenni (quando non addirittura i cinquantenni): tutti gli studi mostrano come i paesi nei quali è più alto il tasso di occupazione dei sessantenni siano quelli nei quali è anche più alto quello dei ventenni.
La realtà è che, per un verso, nella maggior parte dei casi non c`è piena fungibilità tra il lavoratore anziano e il giovane; per altro verso, le risorse destinate ai pensionamenti anticipati vengono sottratte proprio alla possibilità di attivazione di nuovi servizi nei quali verrebbero occupati soprattutto i più giovani. Queste disposizioni, oltretutto, vanno in controtendenza rispetto all`aumento generale dell`età pensionabile, conseguenza inevitabile dell`allungamento della vita media (la quale – giova ricordarlo – dal 1974 a oggi è passata da 76 a 85 anni per le donne, da 70 a 80 anni per gli uomini).
L`inopportunità di queste disposizioni ci sembra ancor più marcata nella parte in cui esse consentono alle università di collocare d`ufficio a riposo i ricercatori universitari con più di 62 anni, e i professori con più di 68 anni, così abbassando le soglie che oggi sono di 65 e 70. Innanzitutto, non si comprende la ratio della differenziazione tra professori e ricercatori, dal momento che questi ultimi sono quasi sempre anche docenti a tutti gli effetti, pur se talvolta con carico didattico un po` inferiore.
 Osserviamo poi che, in Italia come in tutto il mondo, la vita media delle persone più istruite è più elevata di 3-4 anni rispetto a quella delle persone meno istruite; e che la carriera di ricercatori e professori universitari incomincia solitamente in un`età più avanzata rispetto alle altre carriere nel mondo produttivo. Non si comprende dunque il senso del mandare in pensione gli operai maschi di imprese private a 67 anni (con un`aspettativa di vita residua di 10) e i ricercatori universitari a 52 anni (con 20 anni di vita davanti a sé). In questo modo, saranno gli operai a pagare le pensioni ai professori…
In terzo luogo, i risparmi consentiti da questa norma sono di entità trascurabile, perché i docenti collocati a riposo – anche se escono dal bilancio delle università – passano a carico dell`Inps, restando in ultima analisi a carico dello Stato; e per gran parte di loro le pensioni saranno vicine agli attuali stipendi, perché calcolate per lo più con il metodo retributivo. L`assunzione di giovani ricercatori o giovani docenti non è dunque facilitata sul piano finanziario dal pensionamento anticipato di chi li ha preceduti in queste funzioni. Semplicemente, così facendo si aumenta la spesa pubblica, scaricando i costi sul sistema pensionistico, come si è fatto dagli anni `60 fino alla riforma Fornero, contribuendo in modo sostanziale ad accumulare gli oltre 2.000 miliardi di debito pubblico che ci affliggono. Noi riteniamo giusto assumere nuovi ricercatori e nuovi professori, perché investendo sulla ricerca di qualità si investe sul futuro, ma bisogna farlo razionalizzando la spesa, non attraverso ‘partite di giro’.
Quanto, infine, all`esigenza di ringiovanire le strutture di governante degli atenei, la legge 240 sull`università già impedisce di eleggere come diret- tore di dipartimento o come rettore un docente che andrebbe in pensione durante il mandato. Per diminuire l`influenza dei docenti più anziani, sarebbe sufficiente estendere questa norma alle commissioni di concorso (sia nazionali sia locali), escludendo dall`elettorato passivo i docenti ordinari con più di 65 anni.
Per tornare al discorso generale su queste disposizioni, osserviamo che esse eludono il vero problema: quello di adattare la qualità del sistema pensionistico all`invecchiamento progressivo della popolazione. Da più parti sono stati proposti – e non solo per il settore universitario e neppure solo per il settore delle amministrazioni pubbliche – meccanismi di uscita ‘dolce’ dal lavoro, in particolare forme di combinazione di lavoro a tempo parziale e pensione. Ma la sede per l`introduzione di una innovazione di questa natura, se si vuole fare le cose per bene, non è il decreto-legge, bensì semmai i disegni di legge-delega sulle amministrazioni pubbliche e sul lavoro privato, contenenti la nuova disciplina organica della materia.

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