È accaduto mezzo secolo fa, il 19 maggio del 1975, in quel decennio in cui in Italia stava tumultuosamente cambiando tutto, con la società, le donne e i giovani in particolare che buttavano alle ortiche la tradizione in nome di ciò che Stefano Rodotà avrebbe poi chiamato il “diritto d’amore”.
In quel maggio del 1975, a 12 mesi esatti dalla vittoria del referendum sul divorzio, l’Italia decideva, con la legge 151 sulla “Riforma del diritto di famiglia”, di mettere fine – almeno sulla carta – al patriarcato. Grazie a una formidabile spinta delle donne dei partiti, dell’Udi, l’alleanza tra laiche e cattoliche, comuniste, socialiste, democristiane e liberali, con i voti contrari invece del Movimento sociale di Giorgio Almirante, il Parlamento approvò una legge epocale che sanciva un principio semplice e assoluto: “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”.
Oggi sembrano parole tanto scontate da apparire banali, ma fino al 1975 il padre e coniuge, grazie al codice maritale fascista del 1942, era invece il dominus assoluto della famiglia. Suo il potere decisionale, sue le decisioni economiche, sua, per decreto, l’ultima parola. Con quella legge, fortemente voluta da un’alleanza femminile bipartisan – Nilde Iotti, Giglia Tedesco, Marisa Rodano, Maria Magnani Noja, Maria Eletta Martini, Franca Falcucci, Rosa Russo Iervolino – finalmente le donne conquistavano assoluta parità decisionale nei confronti dei figli e della famiglia. Pur dovendo ancora aggiungere il proprio cognome a quello del marito, entrano in comunione dei beni con il partner, non hanno più l’obbligo di portare la “dote”, il loro lavoro viene ritenuto del tutto paritario a quello dell’uomo. Non dipendono più formalmente dal marito, anche se sappiamo che ci vorranno decenni per conquistare un’autonomia tuttora incompiuta.
È il primo grande scossone alla patria potestà, dizione che scompare dal lessico a favore della potestà genitoriale condivisa. Infatti, come spiega bene il demografo Alessandro Rosina, «la legge sul diritto di famiglia cambiò non soltanto la vita delle donne ma anche quella dei figli». I quali figli, mentre il vento del ’68 soffiava ancora forte, avevano già da tempo iniziato a demolire la struttura gerarchica della famiglia comandata da padri a volte padroni. Ma cinquant’anni più tardi, dopo la rivoluzione del femminismo, la legge sull’aborto, l’accesso finalmente massiccio delle donne nel mercato del lavoro, possiamo davvero dire che il patriarcato sia stato sconfitto o quantomeno depotenziato?
Cecilia D’Elia, senatrice Pd e autrice di più di un saggio sulla storia dei diritti delle donne, da Libere tutte, a Chi ha paura delle donne?, parte da un ricordo personale. «Sono figlia di una delle prime coppie di divorziati e ricordo bene quegli anni in cui, nonostante la legge, lo stigma sulle famiglie che si separavano era fortissimo. Il diritto di famiglia è stato una rivoluzione, ma la norma non basta, i retaggi patriarcali sono ancora forti, pensate non soltanto alla tragedia dei femminicidi ma alla legge sul cognome materno ferma in Parlamento a causa di forti resistenze maschili. La parità economica nella coppia non c’è, oggi un nuovo disegno di legge sull’affido condiviso sulla scia del famoso “decreto Pillon” punta a ridimensionare il ruolo delle madri. I diritti sono una cosa viva, possono evolversi o implodere».
Anche Alessandro Rosina parla di rivoluzione incompiuta. «Quel vento che partendo dal ’68 avrebbe spazzato via la famiglia tradizionale riformandone il diritto, aveva due assi portanti: le donne e i giovani. Perché davvero si potesse realizzare il cambiamento ci sarebbe voluto un nuovo sistema di welfare. Invece, a differenza di altri Paesi europei, il nostro welfare ha continuato a “premiare” l’uomo capofamiglia come nei primi 30 anni del dopoguerra. Senza strumenti di conciliazione, gravate dal lavoro di cura, penalizzate dalla maternità, le donne non hanno ancora ottenuto quella parità che il diritto di famiglia prometteva». E anche sui giovani, sempre più spesso costretti ad emigrare, «la mancanza di investimenti sull’occupazione, sta portando a una fuga dal nostro Paese di dimensioni catastrofiche». Dunque, è il pensiero di Rosina, rispetto alle promesse di quel famoso decennio 1968/1978 che si concluderà poi con lo shock del delitto Moro, «noi oggi in Italia siamo in una fase di regressione».
Livia Turco aveva vent’anni nel 1975 e faceva parte della Federazione giovanile comunista. «Ricordo che costruimmo la vittoria al referendum sul divorzio perché, andando casa per casa, parlavamo non soltanto della campagna per il No, ma soprattutto del diritto di famiglia, della parità, di un nuovo modo di vivere i sentimenti. Il divorzio era un bisogno, un diritto, ma faceva anche paura, era un argomento spinoso, sono convinta che il referendum vinse grazie alla prospettiva di un nuovo diritto di famiglia».
Un ricordo inedito cui Livia Turco, oggi presidente della Fondazione Iotti, collega il ruolo delle madri costituenti che «si batterono perché nella Carta non venisse sancita l’indissolubilità del matrimonio e affermata invece l’eguaglianza tra i coniugi». Ma ci vollero 20 anni perché quei principi della Costituzione trovassero nel 1975 applicazione in una legge. «Noi oggi abbiamo un diritto di famiglia che si è evoluto ancora, con la parificazione tra figli legittimi, figli naturali e figli adottivi, le unioni civili nel 2016. Troppe forme familiari non sono però oggi tutelate e il prezzo di questa discriminazione lo pagano i bambini».