Segue testo lettera
Egregio Presidente, Egregi Ministri,
nella notte tra il 7 e l’8 maggio 2013, in Val di Susa, un operaio del cantiere TAV di Chiomonte, che aveva appena terminato il proprio turno di lavoro, mentre rientrava a casa è stato vittima lungo l’autostrada di un agguato da parte di un gruppo di persone incappucciate che, dopo averlo fermato con un ostacolo posto sulla strada, hanno colpito il furgone su cui viaggiava con un fitto lancio di pietre. Per fortuna, se così si può dire, le conseguenze fisiche sono state limitate, ma l’episodio segna, a mio modesto modo di vedere, un preoccupante salto di qualità nell’azione degli antagonisti No Tav. Nonostante siano anni che azioni violente da parte della frangia autonoma e anarco-insurrezionalista del movimento No Tav si susseguono nella zona del cantiere di Chiomonte, fino ad ora non si era mai verificata un’azione pianificata e diretta nei confronti di un singolo.
Nelle ore successive all’agguato ci sono due elementi che mi hanno molto colpito. Il primo è l’assoluto e totale silenzio da parte della politica, delle istituzioni e della cosiddetta società civile nell’esprimere condanna per quanto avvenuto e solidarietà all’operaio ferito. Anzi, un gruppo di Parlamentari della Repubblica, proprio oggi, ha emesso un comunicato in cui si cercano fantasiose giustificazioni e non una parola di condanna viene espressa.
Il secondo elemento, è la rivendicazione dell’agguato, chiara e inequivocabile, pubblicata ieri sera sul sito ufficiale del movimento No Tav (notav.info) nonché organo del comitato popolare di lotta di Bussoleno, con il titolo “Chi devasta se l’aspetti”. È la prima volta che assistiamo a una rivendicazione ufficiale di un fatto violento collegato alla Tav. Il sito in questione è registrato a nome di Pier Paolo Pittavino, numero 4 nella scala di comando del centro sociale Askatasuna. La mail di riferimento del sito stesso è quella di Lele Rizzo, numero due del medesimo centro sociale. Per non lasciare nulla di non detto, il numero 1 e il numero 3 di Askatasuna si chiamano Giorgio Rossetto e Andrea Bonadonna. Quasi tutte queste persone sono pluri-indagate, pluri-denunciate e in alcuni casi sono state anche arrestate per atti compiuti nell’ambito della lotta ‘popolare’ contro la TAV o per operazioni violente condotte in altri ambiti.
Risulta evidente, quindi, che non stiamo parlando di figure abituate al confronto democratico né di esponenti di gruppi gandhiani, ma di soggetti e di organizzazioni che hanno fatto della lotta violenta e paramilitare la cifra della loro azione politica.
Qualche giorno fa il Presidente della Camera dei Deputati On. Laura Boldrini, è intervenuta per denunciare la violenza gratuita che viene veicolata attraverso il web, aprendo un dibattito sulla necessità di un maggiore controllo di questo fenomeno.
Non mi piace l’idea di mettere bavagli ad internet, ma mi domando, però, se la violenza del web sia solo riconducibile a chi pubblica fotografie osé o posta commenti minacciosi o insulti, oppure anche a quei casi in cui il web diventa addirittura strumento attraverso il quale rivendicare veri e propri agguati para-terroristici o ad istigarne la realizzazione.
Sono oramai molti anni che denuncio l’escalation di una parte minoritaria del movimento No Tav verso forme sempre più estreme di lotta: il silenzio e il disinteresse rispetto a queste denunce, purtroppo, sono una costante. Però, se si ripercorrono cronologicamente le mie denunce, si potrà facilmente verificare che avevo anticipato questo progressivo imbarbarimento della lotta.
Un silenzio che ha coinvolto e coinvolge gran parte del sistema politico, gran parte delle istituzioni e dei circoli intellettuali e giornalistici: in alcuni casi non sono mancati da esponenti di tali circoli giustificazioni, alibi e attestati di solidarietà nei confronti dei violenti o dei loro mandanti e istigatori.
Qualcuno, aveva sperato che l’arrivo in Parlamento del movimento 5Stelle, da sempre contrario alla realizzazione della TAV, potesse istituzionalizzare la protesta, rendendo finalmente democratico il confronto. Purtroppo anche questa speranza sembra andare delusa.
Credo sia giunto il momento – in realtà sarebbe giunto da tempo – che la società torinese e piemontese, anzi, il Paese, affronti il tema della violenza in Val di Susa senza girarsi dall’altra parte, prima che l’escalation di cui parlavo produca fatti ancora più gravi. Fatti che rischierebbero di segnare un punto di non ritorno.
Sollecito questa discussione attraverso questa lettera aperta non per ragioni personali, sono abituato a condurre questa battaglia nella quasi totale solitudine e continuerò a farlo, ma perché ritengo giusto che, in un momento di gravissima crisi economia e sociale e in una fase in cui le istituzioni democratiche hanno perso una parte consistente della loro credibilità, rimanga traccia di un invito alla riflessione sulla portata degli eventi della Valle di Susa. Non mi aspetto che queste mie poche righe cambino l’approccio al problema, ma credo giusto segnalare a tutti che il silenzio può generare vittime.