La retorica stracciacula del cattivismo e l’enfasi delle cattive parole
Da quando ho iniziato a collaborare al Foglio (16-17 anni fa), a chi mi criticava elencando le nefandezze di questo giornale, ho sempre risposto così: ma vuoi mettere il piacere di scrivere sul quotidiano meglio scritto d`Italia? E con questa fragilissima giustificazione e con questo vulnerabilissimo usbergo, sono andato avanti, bene o male, fino a oggi. Passando attraverso lubriche passioni berlusconiane e rivisitazioni di Augusto Pinochet che si pretendevano ‘obiettive’, celebrazioni altrettanto ‘obiettive’ di Carlo Giovanardi e nostalgie dell`Italia delle mammane. Alla mía età, è persino possibile considerare tutto ciò come espressione di un pluralismo sregolato, al quale partecipare pur di condividere una scrittura non sciatta e non stereotipata, non trasandata e non ‘giornalistica’. Dopodiché, sul Foglio del 1° ottobre (due giorni prima del naufragio di Lampedusa), leggo un editoriale dedicato alla tragedia di Scicli (13 migranti morti a pochi metri da una spiaggia del ragusano). Leggo e vi trovo il termine buonismo per tre (3) volte in poche righe. Una prima volta come sostantivo e altre due come aggettivo. Palpitazioni, una leggera nausea e una sensazione di soffocamento. Va da sé: il termine buonismo è tra i più frustri e logori dell`intero dialetto politico nazionale, manifestazione propria di chi si trova all`ultimo stadio della capacità espressiva e nella fase estrema dell`esaurimento della scrittura. Segno della corrività più vieta e dell`impoverimento intellettuale che si fa grossolanità stilistica. Insomma, è una ‘parola sporca’. Scrivere buonismo, e per tre volte, è come se io scrivessi per tre volte (e non lo faccio nemmeno per una) solidarietà. E ora, che cosa dobbiamo aspettarci dal Foglio? Che ricorra a formule come ‘senza se e senza ma’ e ‘mettere le mani nelle tasche degli italiani’; e ancora: ‘Questioni eticamente sensibili’ e magari ‘ci metto la faccia’ e, Dio non voglia, ‘è nel nostro Dna’? (Oggi, se vai in un negozio di alimentari e azzardi: vendete frutta?, è facile che quello ti risponda: ‘No, non appartiene al nostro Dna’).
Purtroppo, anche in questo caso, la parola tradisce il pensiero e chi scrive male elabora male. L`editoriale in questione presenta dei dati che proverebbero come, quando si adottano politiche restrittive, i flussi migratori risulterebbero drasticamente ridotti. Beata innocenza. Si tratta, in realtà, di un`ingenua utopia e i dati riportati sono agevolmente rovesciabili. Tanto per dirne una, nel 2011, quando ministro dell`Interno era Roberto Maroni, gli sbarchi furono ben 62.692. Il motivo è semplice: è quello l`anno delle rivolte nei paesi rivieraschi dell`Africa che determinarono i maggiori movimenti migratori.
Ma questa è un`ulteriore conferma del fatto che non sono i pattugliamenti delle motovedette – sempre che rispondano a criteri di diritto internazionale e di equità, cosa assai dubbia – a rappresentare una soluzione efficace. Ma non è questo il punto che qui più interessa. Dopo la strage di Lampedusa le stesse tendenze linguistico-ideologiche prima citate si sono manifestate in una sorta di delirio di auto-esaltazione. Com`era fatale, il termine ‘buonismo’ è diventato titolo su nove colonne (o non so quante) del Giornale e della Padania. E, di rincalzo, ecco l`ipocrisia umanitaria sulla quale insiste Giuliano Ferrara e la ‘colpevolizzazione’ che turba tanti. Questa sì che è bella. Dunque, il problema sarebbe che quei morti in mare rischiano di determinare un esile sentimento di leggero imbarazzo e una sottile sensazione di lieve disagio in noi italiani. Beh, vorrei dirvi, c`è qualcosa di peggio. E, soprattutto, a guardarsi intorno, più che la ‘ipocrisia umanitaria’, sembra prevalere l`ipocrisia disumanitaria. La retorica della solidarietà viene agevolmente sopraffatta, in questi giorni, e in alcune testate (il Foglio non sfugge alla tentazione), dalla retorica stracciacula del cattivismo, dall`enfasi delle cattive maniere e delle cattive parole, dall`ideologia del realismo che si fa prepotenza meschina. Il cinismo, che è questione di profonda portata filosofica, diventa sottocultura loffia da ultras. Il dispositivo mentale e quello linguistico sono sempre gli stessi: si ritiene che un atteggiamento e un pensiero, in quanto condivisi da certe élite e da alcuni strati sociali, nutrano il conformismo del politicamente corretto fino a esercitare una sorta di egemonia culturale (ovviamente sinistríca), contro la quale si indirizza quello che si vorrebbe fosse il riso dissacratore di Franti. Ma non è il sorriso ribaldo e inquieto di Franti, questo: è piuttosto lo spirito di patata, come avrebbe detto mia nonna, di un esibizionismo piccino, che immagina di rafforzarsi attraverso l`invettiva contro ciò che non riesce a comprendere, e neppure a prendere. Consideriamo questa frase: ‘Migranti, parola carica di pregiudizio positivo, parola poetica, di risonanza carducciana’. Qualcuno deve pur dirglielo, a Camillo Langone, che migranti (traduzione letterale dal latino migrantes) è né più né meno che il termine esatto per definire insieme la condizione di chi muove da un luogo (emigrante) e la condizione di chi giunge in un luogo (immigrato). Come si vede, è sempre la parola che crea il mondo. P.S. Nell`articolo del Foglio del 1° ottobre si legge che il mancato raggiungimento delle firme necessarie per il referendum radicale sulla Bossi-Fini dimostrerebbe come il tema della sua abolizione sarebbe difficilmente ‘sostenibile’ (perché impopolare, immagino). E` per questa stessa ragione perché impopolare – che non è stato raggiunto nemmeno il numero di firme neces- sario per il referendum sull`abolizione del finanziamento pubblico ai partiti? Aporie della ragione e della scrittura.

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