Quarant’anni fa a Helsinki iniziò il disgelo fra Est e Ovest anche grazie alla diplomazia vaticana. La storica Fattorini: ‘Non fu una concessione al comunismo, ma guardava al futuro’
La Conferenza di Helsinki, 40 anni fa, fu l`epilogo del processo di riavvicinamento dei due blocchi nati dopo la seconda guerra mondiale. Fu il primo risultato concreto della Ostpolitik, nella quale il Vaticano ebbe un ruolo decisivo: il riavvicinamento in nome della sicurezza e della cooperazione, rappresentò pure la consacrazione dei diritti umani in nome della libertà religiosa, come architrave di una nuova politica europea.
La storica Emma Fattorini, membro della delegazione italiana dell`Assemblea parlamentare dell`Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) e senatrice Pd, ha partecipato a Helsinki alla sessione commemorativa per i 40 anni dell`atto finale della Conferenza di Helsinki.
Professoressa Fattorini, da cosa nasceva quella volontà di dialogo con l`Est Europa che portò al primo atto di «disgelo»?
« L’Ostpolitik, diceva il cardinale Villot, il segretario di Stato di Paolo VI, non era da intendere come ars vivendi, ma come ars non moriendi: era all`inizio un rimedio alla persecuzione, fosse violenta o fosse di lento soffocamento. L`Ostpolitik era mal compresa da molti critici, al di qua e al di là della cortina di ferro, perché accusata di essere una concessione al comunismo, un atto di debolezza e un`accettazione dell`ingiusto status quo esistente nell`uno o nell`altro Paese. Queste critiche non capivano lo sguardo lungo insito nella moderazione diplomatica di questa strategia che guardava al futuro a prezzo anche di compromessi contingenti. Dopo il 1989 voci critiche affermarono che l`Ostpolitik era stata superflua, vista l`imminente fine del comunismo, ma nessuno prevedeva negli anni Sessanta e Settanta un crollo così repentino di un`ideologia e di un dominio imperiale creduti vitali e potenti e, nella Chiesa, solo Karol Wojtyla già nel 1978 credeva possibile nel medio termine questo crollo e anzi lo preannunciò nel suo primo viaggio in Polonia».
Una apertura al dialogo, dunque. Ma non fu anche un scendere a qualche compromesso con i regimi sovietici?
«Certamente l`Ostpolitik non significava un atteggiamento acquiescente verso il comunismo. Era semmai squisitamente diplomazia, quella alta. La politica del dialogo avviata dal Vaticano era considerata particolarmente affidabile: perché scevra dalle rivendicazioni occidentali e perché duttile, sapeva cioè distinguere tra op- posizione alla dottrina marxista e convergenza pragmatica politica. La politica vaticana si muoveva con molta autonomia dai Paesi occidentali, la sua politica di dialogo con i Paesi socialisti aveva intenti pastorali e di pacificazione, di una riduzione delle tensioni per sostenere una politica del disarmo. Inoltre c`era in quella strategia un`intuizione potente: la libertà religiosa – come metafora di tutte le libertà di espressione e dunque il cuore dei diritti umani – concrete politiche di disarmo e giustizia sociale erano intese come le strade maestre per concludere non solo la fase più acuta della guerra fredda ma anche per ridisegnare un ruolo alto e ampio all`Europa delle nazioni. Quello che dopo Helsinki divenne una piattaforma per tutti». Cosa rappresentò, in questo contesto e con queste premesse, la Conferenza di Helsinki?
«Nel luglio e agosto del 1975 la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa fu il primo generale incontro di tutti i Paesi dopo la seconda guerra mondiale, dopo il ventennio 1950-1970 segnato dalla nascita del Patto di Varsavia e della Nato, il conflitto coreano le repressioni a Berlino est, a Budapest e in Polonia, la vicenda del canale di Suez, la guerra in Vietnam, la crisi di Cuba e da tutti i focolai e le destabilizzazioni del consumarsi del processo di decolonizzazione. A Helsinki si sfaldarono consolidate diffidenze come quella, la madre di tutte, che un processo di distensione avrebbe significato meno sicurezza per l`occidente».
Quale eredità preziosa di questo Atto di Helsinki? Resta solo un metodo o ci sono dei contenuti attuali?
«Mi viene in mente ciò che il cardinale Achille Silvestrini scriveva nell`introduzione alle memorie di Casaroli intitolate significativamente Il martirio della pazienza e cioè che ‘il dialogo lungo e faticoso dell`Ostpolitik ha lasciato frutti nel tempo’ e può continuare a darne. Helsinki ci lascia dunque come primo frutto questa sapienza diplomatica così preziosa per affrontare le crisi delle repubbliche post-sovietiche. Ogni papa ha poi avuto una sua visione della distensione e della pace: quella di Giovanni XXIII è fatta di intuizioni, atti coraggiosi, quella di Paolo VI di piani più organici, è più progettuale. Giovanni Paolo II richiama le Chiese dell`Est a essere più coraggiose, più politiche, pensiamo al suo intervento deciso e decisivo in Polonia. Con Wojtyla la Ostpolitk si fa aggressiva culturalmente e politicamente, ma resta nelle mani prudenti di monsignor Casaroli, divenuto cardinale segretario di Stato. Giovanni Paolo II concepiva dunque un`Europa fino agli Urali, comprensiva della Russia, cioè la Grande Europa dall`Atlantico agli Urali, cui teneva molto più della piccola Europa di Bruxelles. E il secondo frutto dello spirito di Helsinki, tanto utile se pensiamo ai conflitti del Mediterraneo, è l`interdipendenza tra giustizia, pace, diritti umani e libertà religiosa. Non è imbelle pacifismo ma è l`unica connessione capace di ridare spinta vitale a un`Europa asfittica e depressa».
La storica Emma Fattorini, membro della delegazione italiana dell`Assemblea parlamentare dell`Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) e senatrice Pd, ha partecipato a Helsinki alla sessione commemorativa per i 40 anni dell`atto finale della Conferenza di Helsinki.
Professoressa Fattorini, da cosa nasceva quella volontà di dialogo con l`Est Europa che portò al primo atto di «disgelo»?
« L’Ostpolitik, diceva il cardinale Villot, il segretario di Stato di Paolo VI, non era da intendere come ars vivendi, ma come ars non moriendi: era all`inizio un rimedio alla persecuzione, fosse violenta o fosse di lento soffocamento. L`Ostpolitik era mal compresa da molti critici, al di qua e al di là della cortina di ferro, perché accusata di essere una concessione al comunismo, un atto di debolezza e un`accettazione dell`ingiusto status quo esistente nell`uno o nell`altro Paese. Queste critiche non capivano lo sguardo lungo insito nella moderazione diplomatica di questa strategia che guardava al futuro a prezzo anche di compromessi contingenti. Dopo il 1989 voci critiche affermarono che l`Ostpolitik era stata superflua, vista l`imminente fine del comunismo, ma nessuno prevedeva negli anni Sessanta e Settanta un crollo così repentino di un`ideologia e di un dominio imperiale creduti vitali e potenti e, nella Chiesa, solo Karol Wojtyla già nel 1978 credeva possibile nel medio termine questo crollo e anzi lo preannunciò nel suo primo viaggio in Polonia».
Una apertura al dialogo, dunque. Ma non fu anche un scendere a qualche compromesso con i regimi sovietici?
«Certamente l`Ostpolitik non significava un atteggiamento acquiescente verso il comunismo. Era semmai squisitamente diplomazia, quella alta. La politica del dialogo avviata dal Vaticano era considerata particolarmente affidabile: perché scevra dalle rivendicazioni occidentali e perché duttile, sapeva cioè distinguere tra op- posizione alla dottrina marxista e convergenza pragmatica politica. La politica vaticana si muoveva con molta autonomia dai Paesi occidentali, la sua politica di dialogo con i Paesi socialisti aveva intenti pastorali e di pacificazione, di una riduzione delle tensioni per sostenere una politica del disarmo. Inoltre c`era in quella strategia un`intuizione potente: la libertà religiosa – come metafora di tutte le libertà di espressione e dunque il cuore dei diritti umani – concrete politiche di disarmo e giustizia sociale erano intese come le strade maestre per concludere non solo la fase più acuta della guerra fredda ma anche per ridisegnare un ruolo alto e ampio all`Europa delle nazioni. Quello che dopo Helsinki divenne una piattaforma per tutti». Cosa rappresentò, in questo contesto e con queste premesse, la Conferenza di Helsinki?
«Nel luglio e agosto del 1975 la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa fu il primo generale incontro di tutti i Paesi dopo la seconda guerra mondiale, dopo il ventennio 1950-1970 segnato dalla nascita del Patto di Varsavia e della Nato, il conflitto coreano le repressioni a Berlino est, a Budapest e in Polonia, la vicenda del canale di Suez, la guerra in Vietnam, la crisi di Cuba e da tutti i focolai e le destabilizzazioni del consumarsi del processo di decolonizzazione. A Helsinki si sfaldarono consolidate diffidenze come quella, la madre di tutte, che un processo di distensione avrebbe significato meno sicurezza per l`occidente».
Quale eredità preziosa di questo Atto di Helsinki? Resta solo un metodo o ci sono dei contenuti attuali?
«Mi viene in mente ciò che il cardinale Achille Silvestrini scriveva nell`introduzione alle memorie di Casaroli intitolate significativamente Il martirio della pazienza e cioè che ‘il dialogo lungo e faticoso dell`Ostpolitik ha lasciato frutti nel tempo’ e può continuare a darne. Helsinki ci lascia dunque come primo frutto questa sapienza diplomatica così preziosa per affrontare le crisi delle repubbliche post-sovietiche. Ogni papa ha poi avuto una sua visione della distensione e della pace: quella di Giovanni XXIII è fatta di intuizioni, atti coraggiosi, quella di Paolo VI di piani più organici, è più progettuale. Giovanni Paolo II richiama le Chiese dell`Est a essere più coraggiose, più politiche, pensiamo al suo intervento deciso e decisivo in Polonia. Con Wojtyla la Ostpolitk si fa aggressiva culturalmente e politicamente, ma resta nelle mani prudenti di monsignor Casaroli, divenuto cardinale segretario di Stato. Giovanni Paolo II concepiva dunque un`Europa fino agli Urali, comprensiva della Russia, cioè la Grande Europa dall`Atlantico agli Urali, cui teneva molto più della piccola Europa di Bruxelles. E il secondo frutto dello spirito di Helsinki, tanto utile se pensiamo ai conflitti del Mediterraneo, è l`interdipendenza tra giustizia, pace, diritti umani e libertà religiosa. Non è imbelle pacifismo ma è l`unica connessione capace di ridare spinta vitale a un`Europa asfittica e depressa».