La tappa più difficile e rischiosa sarà il Centrafrica martoriato da una lunga guerra civile
Non ho paura delle persone ma delle zanzare» questa frase ha fatto il giro del mondo. Ouel mondo oggi più che mai spaventato, allarmato, terrorizzato. Quella del papa non è incoscienza, non è la spavalderia spirituale di chi cerca, in qualche modo, il martirio. In lui fede e testimonianza non sono mai disgiunte dalla ragione. E sa bene che nulla proprio nulla fa più paura della paura stessa. Vale per le esistenze dei singoli nei momenti delle grandi prove, vale per le comunità civili che hanno, come oggi tutte le ragioni per essere preoccupate.
Perché la paura a differenza della prudenza non è un sentimento produttivo, e, quello che è certo è che la paura non fa mai, proprio mai, superare la paura e le sue cause. Ciò che serve è invece capire e aggredire le cause. Ed è quello che Bergoglio ha cominciato a fare appena sceso sul suolo keniota.
«Nell’opera di costruzione di un solido ordine democratico, – ha esordito – di rafforzamento della coesione e dell’integrazione, della tolleranza e del rispetto per gli altri, il perseguimento del bene comune deve essere un obiettivo primario».
L’esperienza dimostra che la violenza, il conflitto e il terrorismo – ha continuato Papa Francesco – sì alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione…E la lotta contro questi nemici deve essere fatta da uomini e donne che senza paura credono nei grandi valori spirituali e politici che hanno ispirato la nascita del Kenya».
All’inizio di questo viaggio, tanto voluto, nei luoghi che raccolgono gli scarti degli scarti il papa ha subito chiarito che povertà, sfruttamento ingiusto delle risorse naturali e terrorismo sono ‘mali’ che si tengono insieme. E che dunque, nel suo viaggio, le terribili ingiustizie sociali sono sempre da tenere connesse con gli intendimenti pastorali (in Africa ci sono le chiese più giovani e dinamiche ma sono anche presenti posizioni retrive sui diritti) e i conflitti geopolitici dell’ area (l’influenza del movimento islamista al-Shabaab che controlla larghe aree della Somalia e che ha causato la strage di 147 giovani della scuola di Garissa lo scorso due aprile).
La tappa successiva del viaggio lo porterà in Uganda che a differenza del Keniya ha l’85% di Cristiani e che fu visitato da Paolo VI nel 1969. A Namugongo pregherà per i martiri ‘ecumenici’ e per quell’altra piaga degli ultimi che è la pandemia dell’ Ebola.
Ma la tappa più difficile e rischiosa sarà quella in Centrafrica, terra poverissima e ricchissima, assediata dai profughi, martoriata da anni di guerra civile tra musulmani e cristiani. Qui a Bangui aprirà la porta del Giubileo che da Bonifacio VIII fino ad oggi non sarà dunque quella di S. Pietro ma, appunto la porta della cattedrale di Bangui, il posto più derelitto, più povero e più pericoloso del mondo.
È in questi quartieri che i servizi segreti francesi non garantiscono la sicurezza del papa e per questo hanno chiesto al Pontefice di non andare, di non rischiare. In molti hanno provato e dissuaderlo, ma come avrebbe risposto, per ultimo, ai piloti dell’aereo: «Se non mi portare mi butto giù con il paracadute».
L’attesa della gente è grandissima e pare che il vescovo Nzapalinga abbia preso accordi direttamente con l’Imam e i capi tribù per assicurare la sicurezza di quello che gli striscioni definiscono Watokuati-siriri, «il messaggero della pace».
Perché la paura a differenza della prudenza non è un sentimento produttivo, e, quello che è certo è che la paura non fa mai, proprio mai, superare la paura e le sue cause. Ciò che serve è invece capire e aggredire le cause. Ed è quello che Bergoglio ha cominciato a fare appena sceso sul suolo keniota.
«Nell’opera di costruzione di un solido ordine democratico, – ha esordito – di rafforzamento della coesione e dell’integrazione, della tolleranza e del rispetto per gli altri, il perseguimento del bene comune deve essere un obiettivo primario».
L’esperienza dimostra che la violenza, il conflitto e il terrorismo – ha continuato Papa Francesco – sì alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione…E la lotta contro questi nemici deve essere fatta da uomini e donne che senza paura credono nei grandi valori spirituali e politici che hanno ispirato la nascita del Kenya».
All’inizio di questo viaggio, tanto voluto, nei luoghi che raccolgono gli scarti degli scarti il papa ha subito chiarito che povertà, sfruttamento ingiusto delle risorse naturali e terrorismo sono ‘mali’ che si tengono insieme. E che dunque, nel suo viaggio, le terribili ingiustizie sociali sono sempre da tenere connesse con gli intendimenti pastorali (in Africa ci sono le chiese più giovani e dinamiche ma sono anche presenti posizioni retrive sui diritti) e i conflitti geopolitici dell’ area (l’influenza del movimento islamista al-Shabaab che controlla larghe aree della Somalia e che ha causato la strage di 147 giovani della scuola di Garissa lo scorso due aprile).
La tappa successiva del viaggio lo porterà in Uganda che a differenza del Keniya ha l’85% di Cristiani e che fu visitato da Paolo VI nel 1969. A Namugongo pregherà per i martiri ‘ecumenici’ e per quell’altra piaga degli ultimi che è la pandemia dell’ Ebola.
Ma la tappa più difficile e rischiosa sarà quella in Centrafrica, terra poverissima e ricchissima, assediata dai profughi, martoriata da anni di guerra civile tra musulmani e cristiani. Qui a Bangui aprirà la porta del Giubileo che da Bonifacio VIII fino ad oggi non sarà dunque quella di S. Pietro ma, appunto la porta della cattedrale di Bangui, il posto più derelitto, più povero e più pericoloso del mondo.
È in questi quartieri che i servizi segreti francesi non garantiscono la sicurezza del papa e per questo hanno chiesto al Pontefice di non andare, di non rischiare. In molti hanno provato e dissuaderlo, ma come avrebbe risposto, per ultimo, ai piloti dell’aereo: «Se non mi portare mi butto giù con il paracadute».
L’attesa della gente è grandissima e pare che il vescovo Nzapalinga abbia preso accordi direttamente con l’Imam e i capi tribù per assicurare la sicurezza di quello che gli striscioni definiscono Watokuati-siriri, «il messaggero della pace».