Siamo rimasti tra gli ultimi nel mondo occidentale a non avere una legge in materia
Sono anni che nel nostro Paese si discute dei diritti delle coppie omosessuali. La prima proposta di legge fu presentata ormai più di 25 anni fa, e da allora sono state molte le iniziative parlamentari, tutte fallite.
Lasciando un vuoto legislativo, più volte oggetto di richiami da parte delle istituzioni europee e dì interventi giurisprudenziali delle corti italiane. La mancanza di una legge produce infatti disuguaglianze insostenibili e viola, da troppo tempo, l’articolo 3 della nostra Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso di razza, di lingua di religione di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti ì lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
La sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale ha infatti riconosciuto, ormai 5 anni fa, l’orientamento sessuale e l’autodeterminazione affettiva della persona omosessuale come dimensioni rilevanti della realizzazione personale.
Orientamento confermato da ultimo dalla medesima Corte con la sentenza 170/2014. Pronunce decisive: il diritto alla famiglia è ora annoverato tra quelli fondamentali perché anch’essa è una formazione sociale e va dunque riconosciuta a tutti la possibilità di averne una.
Sarebbe bastato un semplice riferimento all’evoluzione dei trattati e dei codici europei per cogliere l’urgenza di un intervento, ma le sentenze che si sono succedute negli anni hanno chiarito benissimo il punto, lasciando al Parlamento la responsabilità di intervenire secondo le forme ritenute più opportune, in base alle prerogative del potere legislativo.
Prerogative, purtroppo, colpevolmente ancora non esercitate.
Siamo rimasti quindi tra gli ultimi, nel mondo occidentale, a non avere una legge in materia che riconosca tutele, diritti e responsabilità.
Un vuoto cui oggi si pone rimedio con il DDL Cirinnà, nato dopo mesi di confronto e mediazioni volte a costruire la posizione più condivisa possibile in sede parlamentare.
 Uno sforzo grande, in cui si è saputo trovare un punto di equilibrio e di incontro tra le diverse posizioni in campo, perché si arrivasse finalmente a questa che è una buona legge.
Se da un lato riconosce che le unioni civili sono altro dal matrimonio, dall’altro garantisce a chi deciderà di ricorrere a questo strumento diritti, tutele e responsabilità finora sconosciute, garantendo anche ai bambini figli di omosessuali tutele ad oggi assenti.
Un punto di valore assoluto che oggi deve trovare sbocco in una votazione, perché il Parlamento assolva alle proprie responsabilità.
Sono convinta che nel regolare la vita dei cittadini, lo Stato debba essere guidato dalla laicità e dalla volontà di costruire una società più giusta, migliore, inclusiva e non dalle convinzioni personali del legislatore, intese perlopiù come un limite e un freno, invece che come risorse e continui richiami ad un’attenzione maggiore, più profonda e empatica ai bisogni, alle diversità ed alle esigenze del prossimo.
 Credo, come ha scritto Martha Nussbaum, filosofa, che tutti debbano sostituire il disgusto, che storicamente ha guidato l’approccio al diverso, alle minoranze, ai gruppi svantaggiati, con l’umanità.
 Immedesimazione e empatia sono le chiavi di un nuovo diritto positivo della convivenza e della cittadinanza, per cui le leggi cambiano non perché si approvano o si rispettano le scelte altrui, come se si potessero giudicare, ma grazie a una nuova empatia che ci permette di vedere gli altri come esseri umani che hanno un’eguale dignità e un eguale diritto a perseguire un’ampia gamma di scelte esistenziali.
Ecco quale è il faro che ci deve guidare per approcciarsi a un tema cosi delicato come quello delle libertà, dell’autodeterminazione, della libera espressione del sé. Non solo l’idea che la mia libertà debba trovare un limite in quella altrui, ma una visione più ricca che va oltre l’individualismo e trova un raccordo nella costruzione di una comunità che accoglie e valorizzale differenze.
 Per questo ho sottoscritto il DDL Cirinnà, e opero perché resti com’è: quindi senza modifiche al principio della stepchild adoption. Un elemento che lo qualifica, non che lo indebolisce.
Con la stepchild adoption, infatti, si assegnano diritti e tutele a bambini che oggi ne hanno meno di altri, lo Stato li rende uguali eliminando le inaccettabili discriminazioni che fino a oggi li hanno accompagnati. È una misura che attribuisce responsabilità e doveri al genitore non biologico per il ruolo fondamentale che già esercita e concede diritti alle diverse migliaia di bambini figli di omosessuali in Italia.
 Chi oggi si oppone, confonde nella polemica politica Í diritti dei bimbi che già ci sono, con una questione seria e complessa come quella della gestazione per altri/e, o utero in affitto. Un passaggio errato se fatto in buona fede, altrimenti una strumentalizzazione da contrastare.
Il mondo femminista è da anni impegnato, a livello globale, contro l’idea dello sfruttamento del corpo delle donne e sta portando avanti un dibattito che condivido sulla gestazione per altre/i che, sebbene unito da questa preoccupazione, vede però diverse posizioni in campo.
Andiamo dunque avanti con il DDL, una norma progressista ed equilibrata, che sancisce un principio di civiltà e aumenta uguaglianza e benessere nel Paese, allargando il campo dei diritti a ogni scelta di amore e tutelando i bambini già nati. Dobbiamo tutti e tutte impegnarci perché vada in porto cosi come è: sarebbe un altro dei tasselli del cambiamento positivo che stiamo costruendo giorno dopo giorno in questa legislatura.
Adesso facciamolo con i diritti, un tema su cui il mondo femminista e femminile è largamente compatto e unito per il si, come è evidente anche da tutti i diversi appelli usciti in questi giorni.
Poi passiamo a discutere di ‘maternità surrogata’ e ‘gestazione per altre’, pratica peraltro già proibita in Italia, anche per poterlo fare con più serenità e senza strumentalizzazioni.

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