La Finale agli US Open, disputata tra le due tenniste azzurre Flavia Pennetta e Roberta Vinci, ha avuto il merito di farci sognare tutte e tutti, di farci sentire parte di una splendida impresa, uno straordinario momento che può anche farci cogliere l’occasione per riconoscere, a tutto lo sport femminile italiano, il giusto valore che merita. Un valore sociale, economico e culturale finora negato, limitato, sottovalutato. In pochi sanno, ad esempio, che tutte le atlete in Italia, Pennetta e Vinci comprese, sono per lo Stato italiano formalmente delle “dilettanti”, in quanto nessuna di loro ha diritto di accesso alle legge 91 del 1981 sul “professionismo sportivo”. Un’incongruenza non solo di forma, ma di grande sostanza e di diritto, che ho deciso di affrontare con un’azione concreta, presentando, il primo luglio scorso, un disegno di legge per modificare la normativa attuale e promuovere l’equilibrio di genere nei rapporti tra società e sportivi professionisti. Si tratta di una norma di civiltà che serve a rendere il nostro Paese coerente con il diritto internazionale, che caratterizza il diritto allo sport non solo in relazione al diritto all’impiego del tempo libero in attività ludico-motorie, ma anche come diritto di tutti, donne e uomini, all’accesso alla pratica sportiva, a svolgere mestieri legati allo sport, ad essere presenti negli organi dirigenziali dello sport, a veder applicate nello sport professionistico e nella contrattualistica le stesse regole che disciplinano i rapporti di lavoro.

L’Unione europea è più volte intervenuta per denunciare la disparità di genere nell’accesso e nello svolgimento dell’attività sportiva. Lo ha fatto, ad esempio, adottando la Risoluzione Donne e Sport nel 2003, nella quale lo sport femminile è definito come espressione del diritto alla parità e alla libertà di tutte le donne di disporre del proprio corpo e di occupare lo spazio pubblico, a prescindere da cittadinanza, età, menomazione fisica, orientamento sessuale, religione; così come ha fatto la Commissione, nel 2007, con il Libro Bianco sullo Sport, impegnandosi a incoraggiare l’integrazione delle questioni di genere in tutte le sue attività relative allo sport.
Eppure in Italia il campo delle attività sportive è ancora segnato da profonde differenze di genere sia in termini di accesso alla pratica sportiva, sia con riferimento alla maggiore rilevanza economica, sociale e mediatica dello sport praticato dagli uomini, sia, infine, per quanto concerne il campo della tutela dei diritti e della rappresentanza femminile negli organi istituzionali nazionali e internazionali che amministrano lo sport. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dal Coni nel 2014, la quota di popolazione femminile che pratica sport è pari al 24 per cento del totale: di conseguenza, 12 sono i punti percentuali che definiscono il gap ancora esistente nella pratica sportiva tra uomini e donne.
Inoltre, sebbene la partecipazione femminile sia in crescita, la differenza di genere nell’accesso alla pratica sportiva resta sostanzialmente stabile negli ultimi 15 anni. Ecco perché è urgente intervenire, a cominciare da una modifica della legge esistente sul professionismo sportivo, che scinde la pratica sportiva in due categorie a seconda della normativa ad essa applicabile: da un lato, l’attività sportiva professionistica svolta nell’ambito di società di capitali e, dall’altro, l’attività sportiva dilettantistica svolta da sportivi e da associazioni sportive dilettantistiche, cooperative e società di capitali senza finalità di lucro. In questa prospettiva, la mancata qualificazione delle discipline sportive femminili come ‘professionismo’ determina pesanti ricadute in termini di assenza di tutele sanitarie, assicurative, previdenziali, nonché di trattamenti salariali adeguati all’effettiva attività svolta.
In fin dei conti, la norma che ho proposto è molto semplice e chiara: da un lato, introduce il divieto di discriminazione da parte delle federazioni sportive nazionali per quanto riguarda la qualificazione del professionismo sportivo, mentre dall’altro, sul modello della legge 10 aprile 1991, n. 125, sulle azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, prevede l’inversione dell’onere della prova – che quindi spetterà alle federazioni sportive nazionali, titolari del potere di qualificazione delle atlete e degli atleti come ‘professionisti’ o ‘dilettanti’ – nel caso in cui elementi di fatto, desunti anche da dati statistici relativi alle qualificazioni degli sportivi professionisti, alla costituzione e alla affiliazione delle società sportive, siano idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso.
Io credo si tratti di un tema importantissimo, e per questo trovo che il Meeting Nazionale dello Sport Femminile, in programma a Roma il 26 settembre prossimo, in cui avrò l’onore di rappresentare il Senato della Repubblica, potrà essere un luogo di discussione eccellente: un confronto tra le istituzioni, la società civile e i maggiori sindacati degli atleti e delle atlete, per dire basta al vergognoso ritardo normativo e culturale con cui l’Italia continua a negare, alle nostre atlete, la propria professionalità. Come se lo sport fosse per loro un hobby e non un lavoro. Anche se arrivano a giuocare a New York, ammirate da donne e uomini di tutto il pianeta, la finale agli US Open.

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