Un buon punto di inizio sarebbe dotarsi e attenersi al rispetto dei codici etici dei partiti, che devono essere chiari vincoli di deontologia professionale
«Non vedo una tensione riformatrice ma piuttosto il rischio che Tangentopoli diventi solo un episodio, più marcato di altri, della corruzione dei partiti politici italiani, senza accorgersi che abbiamo a che fare con un sistema corruttore non solo dei partiti ma potenzialmente di tutte le forme di organizzazione della società civile».
Era il 1993, quando Bruno Trentin rilasciò queste parole, in un’intervista per Nuova Rassegna Sindacale, intuendo, forse meglio di chiunque altro, il dilagare del fenomeno corruttivo ben oltre i confini dei partiti. Dopo più di vent’anni, con l’inchiesta Mafia capitale, gli interessi, gli intrecci criminali tra macchine di potere e poteri occulti, le intimidazioni verso i giornalisti, sono fenomeni emersi come prassi quotidiana al servizio del malaffare, come regola del radicamento, nel territorio, di lobbies e mafie la cui influenza si è propagata ben aldilà di singoli partiti o corporazioni.
Non credo sia giusto, nonostante ciò, ritenere che la nostra democrazia sia malata, perché le forze sane, gli anticorpi, il nostro sistema istituzionale ha dimostrato e sta dimostrando di averli.
Anche le misure valutate dal governo, come l’incremento della pena per il reato di corruzione, la revisione del rito del patteggiamento, gli interventi sulle confische, sono certamente il segno di un cambiamento tangibile su cui il parlamento dovrà esprimersi in tempi rapidi. Una lettura politica del fenomeno corruttivo, che nel nostro paese ha raggiunto livelli indecentemente tra i più alti d’Europa, induce anche a ragionare nei termini di rinnovamento etico della nostra società.
Perché se è vero che la corruzione è un grave danno all’economia, quantificato in circa 60 miliardi di euro l’anno, come ci ricordava, due anni fa, la Corte dei conti, essa è anche – e soprattutto – un grave danno alla fiducia dei cittadini nella politica, in chi ha responsabilità pubbliche, e nella sua capacità di agire, nelle istituzioni, per il bene comune.
Trovo significativo, che anche dal mondo delle religioni, ad esempio da papa Francesco, giungano continuamente appelli a un rinnovamento etico; la religione non basta più, «serve un’etica laica», ha detto recentemente anche il Dalai Lama.
E basta leggere in Aristotele cos’era per i greci la politica, ovvero lo spazio pubblico in cui si manifesta l’azione etica per il benessere della polis, per aprire un serio ragionamento sul percorso di selezione della nostra classe dirigente. Credo sia importante tornare a parlare di etica, trasparenza e responsabilità perché è solo così che possiamo dare voce a quella cultura della legalità che nella società italiana è viva e forte, ma fatica a divenire un vero e proprio modello politico-culturale.
Serve un cambiamento pragmatico e responsabile che muova la politica verso misure di tutela della legalità a tutti i livelli. Il dipendente di un ente pubblico, ad esempio, deve avere sempre la possibilità di denunciare, attraverso la semplice compilazione di una scheda intranet o con altri strumenti, qualsiasi attività sospetta di corruzione, concussione, peculato, turbativa d’asta e in generale qualsiasi reato contro la pubblica amministrazione.
Trovo fondamentale che lo stesso dipendente, di qualsiasi livello, possa esercitare la propria responsabilità, essendo dotato della possibilità di attivare il controllo statale. È una procedura importante, questa, nota con il nome di whistleblowing (letteralmente: soffiando nel fischietto), e in parte prevista nella legge Severino, entrata in vigore dal 2013. In quel testo, infatti, si prevede che «il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia».
Ma mentre questa legge limita alle pubbliche amministrazioni le disposizioni per il whistleblowing, credo sia doveroso estendere anche alle aziende private questa pratica. È una questione culturale e di civiltà, che in quanto tale non può riguardare solo i dipendenti di enti pubblici ma deve coinvolgere tutto il mondo del lavoro. Per questo sono fermamente convinta che occorra una legge specifica con cui la nostra legislazione possa riconoscere, pienamente, la procedura per il whistleblowing, adottata finora in modo solo sperimentale e in modo disomogeneo.
Sono positivi gli interventi pilota, come quello approvato, ad esempio, dal consiglio comunale di Milano nel 2013, oppure come quello realizzato presso la presidenza del consiglio, che ha introdotto ad agosto un proprio sistema interno per la gestione di segnalazioni di illeciti. Ma serve un passo in avanti per rendere questa procedura integrata, a tutti i livelli, e farne uno standard di qualità su tutto il territorio nazionale, coerentemente con le altre realtà europee che hanno saputo contrastare e prevenire meglio di noi, e già da tempo, la corruzione e l’illegalità.
È anche questo un modo per stare dalla parte giusta, per sostenere la cultura del bene comune. Le pratiche della trasparenza e della legalità vanno incoraggiate sempre, protette da possibili ritorsioni, valorizzate, perché la parte sana del paese ci racconta una storia fatta di donne e uomini che non si rassegnano all’idea che nulla possa cambiare.
Sono certa che ora si debba e si possa fare di più. L’approvazione della legge che ha consentito di commissariare il consorzio Mose a Venezia e gli appalti dell’Expo 2015 di Milano, oppure quanto votato in senato con il disegno di legge sul rientro dei capitali dall’estero e sull’autoriciclaggio, sono prove di un cambiamento positivo che va ora sostenuto con altre misure di spessore: dobbiamo ricostruire il valore stesso della responsabilità personale e della funzione politica come costruzione del bene comune.
Ancora una volta, come per gli altri cambiamenti di cui necessita il nostro paese, buona parte della sfida sarà giocata sul campo della scuola e dei media, attraverso i quali si formano l’educazione civica e il senso della sfera pubblica per le nuove generazioni. Dobbiamo uscire, una volta per tutte, dalla logica dell’emergenza, per tacere quelle generalizzazioni improprie che, come ricordato recentemente dal nostro presidente della repubblica, vanno evitate in quanto fuorvianti e improduttive.
«Non è solo con gli arresti che si vince la corruzione, la politica deve recuperare fino in fondo il valore etico della sua funzione». Basterebbero queste poche recenti parole di Raffaele Cantone, nominato a marzo presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione dal presidente del consiglio Renzi, con una nomina confermata all’unanimità dalla commissione affari costituzionali del senato, per esprimere il rigore di cui necessita l’esercizio del governo della cosa pubblica. Un buon punto di inizio sarebbe, per chi fa politica, dotarsi e attenersi al rispetto dei codici etici dei partiti, che devono essere chiari vincoli di deontologia professionale.
Rassegnarsi a vedere, nella politica italiana, un indefinito sistema fatto a misura di delinquenti e corruttori di professione: questo sì, sarebbe un torto a chi tenta, ogni giorno, di costruire quella “tensione riformatrice” che non possiamo più rimandare.
Era il 1993, quando Bruno Trentin rilasciò queste parole, in un’intervista per Nuova Rassegna Sindacale, intuendo, forse meglio di chiunque altro, il dilagare del fenomeno corruttivo ben oltre i confini dei partiti. Dopo più di vent’anni, con l’inchiesta Mafia capitale, gli interessi, gli intrecci criminali tra macchine di potere e poteri occulti, le intimidazioni verso i giornalisti, sono fenomeni emersi come prassi quotidiana al servizio del malaffare, come regola del radicamento, nel territorio, di lobbies e mafie la cui influenza si è propagata ben aldilà di singoli partiti o corporazioni.
Non credo sia giusto, nonostante ciò, ritenere che la nostra democrazia sia malata, perché le forze sane, gli anticorpi, il nostro sistema istituzionale ha dimostrato e sta dimostrando di averli.
Anche le misure valutate dal governo, come l’incremento della pena per il reato di corruzione, la revisione del rito del patteggiamento, gli interventi sulle confische, sono certamente il segno di un cambiamento tangibile su cui il parlamento dovrà esprimersi in tempi rapidi. Una lettura politica del fenomeno corruttivo, che nel nostro paese ha raggiunto livelli indecentemente tra i più alti d’Europa, induce anche a ragionare nei termini di rinnovamento etico della nostra società.
Perché se è vero che la corruzione è un grave danno all’economia, quantificato in circa 60 miliardi di euro l’anno, come ci ricordava, due anni fa, la Corte dei conti, essa è anche – e soprattutto – un grave danno alla fiducia dei cittadini nella politica, in chi ha responsabilità pubbliche, e nella sua capacità di agire, nelle istituzioni, per il bene comune.
Trovo significativo, che anche dal mondo delle religioni, ad esempio da papa Francesco, giungano continuamente appelli a un rinnovamento etico; la religione non basta più, «serve un’etica laica», ha detto recentemente anche il Dalai Lama.
E basta leggere in Aristotele cos’era per i greci la politica, ovvero lo spazio pubblico in cui si manifesta l’azione etica per il benessere della polis, per aprire un serio ragionamento sul percorso di selezione della nostra classe dirigente. Credo sia importante tornare a parlare di etica, trasparenza e responsabilità perché è solo così che possiamo dare voce a quella cultura della legalità che nella società italiana è viva e forte, ma fatica a divenire un vero e proprio modello politico-culturale.
Serve un cambiamento pragmatico e responsabile che muova la politica verso misure di tutela della legalità a tutti i livelli. Il dipendente di un ente pubblico, ad esempio, deve avere sempre la possibilità di denunciare, attraverso la semplice compilazione di una scheda intranet o con altri strumenti, qualsiasi attività sospetta di corruzione, concussione, peculato, turbativa d’asta e in generale qualsiasi reato contro la pubblica amministrazione.
Trovo fondamentale che lo stesso dipendente, di qualsiasi livello, possa esercitare la propria responsabilità, essendo dotato della possibilità di attivare il controllo statale. È una procedura importante, questa, nota con il nome di whistleblowing (letteralmente: soffiando nel fischietto), e in parte prevista nella legge Severino, entrata in vigore dal 2013. In quel testo, infatti, si prevede che «il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia».
Ma mentre questa legge limita alle pubbliche amministrazioni le disposizioni per il whistleblowing, credo sia doveroso estendere anche alle aziende private questa pratica. È una questione culturale e di civiltà, che in quanto tale non può riguardare solo i dipendenti di enti pubblici ma deve coinvolgere tutto il mondo del lavoro. Per questo sono fermamente convinta che occorra una legge specifica con cui la nostra legislazione possa riconoscere, pienamente, la procedura per il whistleblowing, adottata finora in modo solo sperimentale e in modo disomogeneo.
Sono positivi gli interventi pilota, come quello approvato, ad esempio, dal consiglio comunale di Milano nel 2013, oppure come quello realizzato presso la presidenza del consiglio, che ha introdotto ad agosto un proprio sistema interno per la gestione di segnalazioni di illeciti. Ma serve un passo in avanti per rendere questa procedura integrata, a tutti i livelli, e farne uno standard di qualità su tutto il territorio nazionale, coerentemente con le altre realtà europee che hanno saputo contrastare e prevenire meglio di noi, e già da tempo, la corruzione e l’illegalità.
È anche questo un modo per stare dalla parte giusta, per sostenere la cultura del bene comune. Le pratiche della trasparenza e della legalità vanno incoraggiate sempre, protette da possibili ritorsioni, valorizzate, perché la parte sana del paese ci racconta una storia fatta di donne e uomini che non si rassegnano all’idea che nulla possa cambiare.
Sono certa che ora si debba e si possa fare di più. L’approvazione della legge che ha consentito di commissariare il consorzio Mose a Venezia e gli appalti dell’Expo 2015 di Milano, oppure quanto votato in senato con il disegno di legge sul rientro dei capitali dall’estero e sull’autoriciclaggio, sono prove di un cambiamento positivo che va ora sostenuto con altre misure di spessore: dobbiamo ricostruire il valore stesso della responsabilità personale e della funzione politica come costruzione del bene comune.
Ancora una volta, come per gli altri cambiamenti di cui necessita il nostro paese, buona parte della sfida sarà giocata sul campo della scuola e dei media, attraverso i quali si formano l’educazione civica e il senso della sfera pubblica per le nuove generazioni. Dobbiamo uscire, una volta per tutte, dalla logica dell’emergenza, per tacere quelle generalizzazioni improprie che, come ricordato recentemente dal nostro presidente della repubblica, vanno evitate in quanto fuorvianti e improduttive.
«Non è solo con gli arresti che si vince la corruzione, la politica deve recuperare fino in fondo il valore etico della sua funzione». Basterebbero queste poche recenti parole di Raffaele Cantone, nominato a marzo presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione dal presidente del consiglio Renzi, con una nomina confermata all’unanimità dalla commissione affari costituzionali del senato, per esprimere il rigore di cui necessita l’esercizio del governo della cosa pubblica. Un buon punto di inizio sarebbe, per chi fa politica, dotarsi e attenersi al rispetto dei codici etici dei partiti, che devono essere chiari vincoli di deontologia professionale.
Rassegnarsi a vedere, nella politica italiana, un indefinito sistema fatto a misura di delinquenti e corruttori di professione: questo sì, sarebbe un torto a chi tenta, ogni giorno, di costruire quella “tensione riformatrice” che non possiamo più rimandare.