Appena Dario Franceschini si siede a parlare con il Venerdì del suo ultimo romanzo, Aqua e tera (la Nave di Teseo), dichiara subito di essere un altro: «Un conto è la mia figura politica, un altro conto è lo scrittore: sono due cose che voglio tenere separate». Il Franceschini che ci riceve nel suo ufficio al Senato è quello che scrive: «Lo faccio ovunque mi capiti, in treno, al bar, nelle sale d`attesa, preferibilmente nella confusione». L`altro Franceschini – il Richelieu che ha puntato tutto su Elly Schlein quando era ancora un azzardo e, come spesso gli capita, ha vinto la scommessa – è chiuso in camera con la bocca tappata. Anche se non è facile farlo stare completamente zitto. «Per scegliere una delle due cose, la politica o la scrittura, avrei dovuto avere a disposizione due vite. In una avrei fatto solo lo scrittore, nell`altra solo il politico. Ma siccome ho una vita sola, ho deciso di fare tutt`e due in questa».
All`inizio, la scissione regna anche nel suo romanzo, storia di un amore omosessuale tra due donne nell`Italia degli anni Venti, divisa tra il furore del movimento operaio e la reazione violenta del fascismo delle origini. Poi, le camicie nere prendono il potere. «Ma non l`ho scritto perché al governo c`è Giorgia Meloni, come potrebbe pensare un malizioso recensore». Nell`ufficio ci sono le fotografie con Barack Obama, il presidente che gli disse che «in Italia non esiste un lavoro più bello del ministro della Cultura». E, sulla scrivania, il libro di Matteo Renzi, Il mostro. «Ma lasci perdere questi dettagli pruriginosi». Una raccolta di racconti, cinque romanzi, di cui il primo rifiutato da tutte le case editrici, quando era ancora un consigliere comunale di Ferrara. «So bene che una persona che entra in libreria e vede un romanzo firmato da un politico passa allo scaffale successivo. Lo farei anche io». Ma lo statuto speciale di Franceschini è una trappola anche per i critici. Affermano che ha talento? Li accusano subito di piaggeria. Lo stroncano? Inevitabile pensare all`antipatia politica. Più umilmente, anche l`intervistatore che lo incontra nel bel mezzo di un terremoto politico -il dopo dimissioni del ministro Sangiuliano -non può non domandargli il suo punto di vista sulla faccenda. «Lo capisco. Ma non commento l`attualità politica. Non ora. Non qui».
Perché allora un romanzo ambientato all`inizio del fascismo?
«Perché da ragazzo ho dedicato la mia tesi di laurea a quegli anni. Da allora ho il desiderio di scriverci una storia. La mia città, Ferrara, fu all`apice della tensione tra le leghe socialiste e gli squadristi, il centro di un passaggio cruciale per la storia d`Italia. I contadini e gli operai avevano fatto la Prima guerra mondiale per avere la terra. Gliela avevano promessa. Invece, quando finì, non ebbero nulla, se non la fatica di lavori massacranti. E la loro rabbia esplose nelle piazze, nelle fabbriche, ovunque, furiosamente».
Con degli eccessi, suggerisce il suo Matteotti.
«A cent`anni dal Biennio rosso credo si possa dire la verità: ci fu da parte socialista un di più che scatenò una reazione. Gli agrari furono spinti nelle mani dei fascisti in nome del pericolo rosso. Fu un errore politico enorme. E Matteotti – che nel romanzo dice solo cose che ha veramente detto – lo aveva intuito».
Matteotti entra in scena come un agnello sacrificale.
«Era al congresso di Livorno e il partito lo mandò d`urgenza a Ferrara dopo una serie di spaventose azioni punitive fasciste. Nonostante il clima, rifiutò di raggiungere la Camera del lavoro in auto, Attraversò la folla a piedi. Centinaia e centinaia di fascisti gli sputavano addosso, lo picchiavano, lo insultavano, gli lanciavano patate, nonostante fosse scortato dal servizio d`ordine».
Pensa che la destra potrebbe mai adottare Matteotti come ha fatto con Gramsci?
«Non lo so. Ma credo che la destra italiana si inganni su cosa sia stato veramente il fascismo. Tende a pensare, cioè, che il male sia sopraggiunto dopo l`alleanza con Hitler e le leggi razziali. Ma, già nel 1921, Matteotti elenca alla Camera un numero impressionante di violenze squadriste. È un discorso meno noto di quello che tiene prima di morire. Però ha dentro l`elemento essenziale: ovvero, che il fascismo è inscritto nella violenza fin dall`inizio. Dal primo momento, il sangue è il cuore della sua teoria e pratica politica. Rimuovere tutto ciò, ma anche solo diminuirlo, è sbagliato storicamente e culturalmente». Com`è stato narrare un amore lesbico in quegli anni?
«A destra e a sinistra, l`omosessualità era rifiutata e repressa, ma quella femminile lo era ancora di più. Non si poteva neanche nominare, tanto grande era lo scandalo. Nei testi dell`epoca non ci sono tracce della sua esistenza, a dimostrazione che non c`erano neanche le parole per dirla. Per questo uso il termine “invertite”, l`unica parola in cui mi sono imbattuto studiando».
Le donne, nel romanzo, sono sempre figure positive.
«Mi sono convinto che le donne siano superiori agli uomini. Hanno una storia di soprusi, camminano su una strada in salita. Ma hanno un`energia, un`intelligenza, una capacità di sentire l`altro che gli uomini non possiedono. Benigni ha da poco ricordato la frase di Groucho Marx: gli uomini sono donne che non ce l`hanno fatta. Non è ipocrita, da uomo, riconoscerlo».
Ma non le sembra di idealizzarle, e anche di rinchiuderle in un ruolo, quello delle “buone”?
«Può darsi. Ma la mia esperienza personale dice questo. Ha mai visto giocare dei bambini all`aperto? I
maschi, dopo pochi minuti, iniziano a picchiarsi, mentre le femmine riescono a stare insieme senza farsi del male. Sono convinto che, se le donne avessero più potere, nel mondo ci sarebbero meno guerre, più comprensione reciproca, meno aggressività».
In Italia ci sono oggi due donne leader, una addirittura a capo del governo.
«Ed è una gran cosa per il Paese. Meloni è un`avversaria, ma il fatto che se la debba vedere con Elly Schlein apre la possibilità di una vita pubblica migliore, meno prigioniera della prepotenza, più aperta». Be`, però questa destra a guida femminile parla spesso di egemonia culturale, che è avere potere sugli altri.
«Sono ossessionati da questa storia dell`egemonia, ma la storia italiana testimonia che negli anni in cui il Partito comunista ha esercitato il massimo del suo potere culturale – i Cinquanta e i Sessanta – le elezioni le vinceva sistematicamente la Democrazia cristiana. Al potere culturale, non corrisponde automaticamente un potere politico».
Sa bene che detta da lei questa frase può suonare assolutoria.
«Ho fatto per otto anni il ministro della cultura italiana, non della cultura di sinistra. Ho nominato Giordano Bruno Guerri al Vittoriale perché pensavo fosse il più indicato al ruolo. Leggo e apprezzo Pietrangelo Buttafuoco, ora alla Biennale di Venezia, anche se è stato nel Movimento sociale. Se un film bello è di un autore di destra, dico che è bello, non che è di destra. Ma non voglio andare avanti. Eravamo qui per parlare di letteratura, no?».
Sì, ma non è facile separare le due cose.
«Ma io non intendo condizionare l`eventuale lettore del mio libro con le opinioni di chi l`ha scritto. Quando pubblicai Daccapo, la storia di un uomo che, in punto di morte, rivela al figlio di avere altri 52 figli illegittimi, lo accostarono al bunga bunga di Berlusconi. Capisce? Cerco in tutti i modi di impedire che il politico si metta in mezzo tra il testo e chi lo legge».
Ma lei potrebbe ottenere questo risultato a una sola condizione: scrivere anonimamente.
«Ma sarebbe come fare un figlio e non dargli il proprio cognome».
Ma potrebbe significare anche che tiene più al suo nome e cognome che al testo.
«Ma io tengo a entrambi. E scrivo delle storie convinto che parlino da sole. Non ho messaggi da lanciare, denunce da urlare. Da questo punto di vista, sono uno scrittore disimpegnato.Vorrei vi dimenticaste tutti di me. A volte, mi piacerebbe sparire. Essere irriconoscibile. Liberarmi della pubblicità».
In Francia, è tradotto dalla prestigiosa casa editrice Gallimard.
«Ed è lì che ho provato l`ebbrezza di essere solo uno scrittore. In pochi sanno chi sia. Esiste solo il romanzo. Perciò nelle recensioni Amazon c`è anche qualche lettore che lascia giudizi entusiasti. Una volta, mi è capitato di leggere anche la parola “capolavoro”. In Italia, invece domina l`insolenza. Perché lo scrittore è vittima del politico».
In Disadorna ha raccontato un importante politico che, colpito, da Alzheimer si dimentica chi è.
«È l`ultimo racconto della raccolta. La gente lo ferma per strada e lui non ricorda più nulla di quel che ha fatto da parlamentare e al governo. Si chiama Dario, è di Ferrara. Però, non sono io».
Non ci credo.
«Dovrebbe, invece».
Ma ha mai desiderato esserlo?
«Ho fatto politica per passione, non sarei mai stato capace di rinunciare alla vita pubblica per fare soltanto il romanziere».
Perché no?
«Perché, se avessi scritto e basta, magari mi sarei annoiato. E, a quel punto, cosa avrei potuto fare: buttarmi in politica?».