Gli uffici stranieri delle questure e il patto sociale tra polizia e cittadini, molto oltre la politica
Lungi da me l`idea di pensarmi come la principessa Erminia che, nella ‘Gerusalemme liberata’, si innamora del suo seque- stratore Tancredi, o anche solo come il Guarnotta di Luigi Pirandello che, una volta rapito, nutre gratitudine per chi lo tiene in pugno. Quelle formulazioni classiche della sindrome di Stoccolma non mi appartengono affatto e, d`altra parte, il mio rapporto con le forze dell`ordine è ripetutamente mutato nel corso degli ultimi quarant`anni. Ripensandoci, nella mia vita ho conosciuto un numero rilevante di poliziotti: a dimostrazione del fatto che, stare dalla parte opposta della barricata (vera o metaforica), finisce col creare molto spesso una singolare intimità. E poi ci sono le peripezie del caso. Trent`anni fa, col neuropsichiatra infantile Marco Lombardo Radice, scrissi un romanzo poliziesco, pubblicato da Mondadori, che aveva come protagonista il commissario di polizia Luigi Longo. Nome e cognome, coincidenti con quelli dell`ultimo segretario del Pci prima di Enrico Berlinguer, avevano un loro senso nella trama perché attribuivano al commissario, del tutto impropriamente, il sentore di una qualche affinità con la sinistra. Pochi giorni fa, apprendo che un poliziotto che si chiama proprio Longo (Nicola di nome) tra gli anni Sessanta e Settanta ebbe un`attività professionale estremamente intensa, operando spesso sotto copertura, tra hippy e gangster marsigliesi, tra sostanze stupefacenti e criminali coattissimi. Una storia così avvincente che Federico Fellini pensò di trarne un film (‘La malavita’) intorno alla metà degli anni Ottanta. Oggi, la cosa si porrebbe in termini tutt`affatto diversi, tant`è vero che quel meraviglioso film a episodi, ‘Distretto di Polizia’ (Mediaset), si è prima lentamente logorato e, infine, nel 2012, esaurito. Quella, sì, era l`ambientazione ideale di una sindrome di Stoccolma di quartiere, bonaria e progressiva insieme, metropolitana e democratica, sociologicamente attualissima e ideologicamente rassicurante. Lì la sindrome di Stoccolma rappresentava il rapporto felice tra cittadino e poliziotto, entrambi non troppo virtuosi e non troppo peccatori, non troppo onesti e non troppo malfattori, ma capaci di risolvere con una sorta di ‘patto sociale’ i conflitti, da quelli più minuti a quelli più laceranti, della vita collettiva. Fino addirittura a quelli culturalmente più sofisticati (le tensioni etniche, le controversie morali e le nuove forme di spiritualità). Ecco, una serie televisiva come quella ha fatto più promozione per la polizia di stato di qualunque discorso del ministro dell`Intemo. E ha rappresentato una sorta di celebrazione di uno dei più famosi luoghi comuni metropolitani: ovvero ‘il poliziotto di quartiere’ (che davvero esista o meno). Io, la mia sindrome di Stoccolma, l`ho vissuta, in ultimo, con Maurizio Improta appartenente a una famiglia di solido lignaggio sbirresco (‘Lo sbirro’ è il libro dedicato al capostipite, Umberto), che ha diretto fino all`altroieri un ‘distretto di polizia’ come l`Ufficio stranieri della questura di Roma, e ora è destinato a un più alto incarico. Quell`ufficio, conficcato in una delle periferie della città, tra un campo rom e il carcere di Rebibbia, ha rappresentato la sede di un importante esperimento sociale e istituzionale, che – grazie al cielo – non si è limitato a quel luogo e a quelle stanze. In più località italiane, un certo numero di poliziotti (ma anche, su un altro piano, di direttori di carcere e di amministratori locali) non hanno opposto resistenza alle pressioni provenienti da una realtà irriducibile a politiche e a norme tanto inadeguate quanto contraddittorie. In una società diventata ‘liquida’ quei funzionari pubblici non potevano conservare uno stato ‘solido’ (e una mente ottusa). Qui non mi riferisco agli episodi di solidarietà spesso evocati (gli agenti che ‘fanno la colletta per comprare i panini’ ai poveri cristi in cui si imbattono): parlo, piuttosto, delle pratiche di concreto rinnovamento sul campo di un ruolo che, se ridotto alla funzione repressiva, semplicemente si rivela fallimentare. Vale per le carceri, ma vale ancora di più per le politiche dell`immigrazione. Oggi, un medio poliziotto conosce le leggi in materia cento volte meglio di un medio parlamentare (Maurizio Improta, poi, le conosce tutte e a memoria). E sa bene che se le applicasse alla lettera, sarebbe una tragedia generale. E così gli uffici stranieri di molte questure svolgono impropriamente – ma provvidenzialmente una pluralità di funzioni: sportello legale e centro di assistenza, servizio di traduzione e di anagrafe e pronto soccorso. Tutto questo nell`Ufficio stranieri amministrato saggiamente da Maurizio Improta e dalle sue donne e i suoi uomini, ha bene o male funzionato per anni. Ma quel ‘bene o male’ può essere considerato, per molti versi, una valutazione di eccellenza. Con le attuali norme sull`immigrazione e, soprattutto, con l`attuale situazione di caos istituzionale e organizzativo dei nostri apparati statuali, oggi il ‘bene o male’ corrisponde a una sapientissima strategia. Quella fatta di un adattamento costante, sensibile e poroso, delle strutture e degli uomini alle esigenze poste da una società in tumultuosa trasformazione. Qui, è proprio il caso di dire, la frase attribuita al generale De Gaulle (‘L`intendance suivra!’) va totalmente rovesciata: la politique suivra. Speriamo.

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