La truffa reale e quella percepita sugli immigrati. Una trovata ‘spirituale per i due Marò
Uno. La felice ambiguità e la ricchezza così contraddittoria della lingua italiana risiedono proprio nella sua misteriosa doppiezza. Nei giorni scorsi, a proposito di ‘Mafia capitale’ si è letta ripetutamente questa locuzione: ‘La truffa degli immigrati’. L`espressione si presta a due possibili letture: la truffa a opera degli, e la truffa ai danni degli. In realtà le due interpretazioni diventano – nelle intenzioni di chi vi ricorre e nella percezione dei destinatari – una sola. Il crimine denunciato è, allo stesso tempo, prodotto dagli immigrati e indirizzato agli immigrati. Ma la sintesi più rapida è un`altra ancora (ed è probabilmente quella prevalente): la truffa c`è perché ci sono gli immigrati. Questo concetto, da una settimana, è quello dominante nella pubblicistica e nell`oratoria delle destre. Il meccanismo adottato è primitivo ma, non per questo, meno efficace, ed è, oltretutto, di antica origine e di lunga sperimentazione. Ma – attenzione – si presta a una serie di possibili altre implicazioni. La prima è stata reiteratamente agitata da personaggi loffi come Antonio Di Pietro e Beppe Grillo: se la politica è corrotta, aboliamo la politica (o se il Parlamento è marcio, marciamo sul Parlamento). Sappiamo com`è andata a finire. E se applicassimo quel dispositivo fino alle estreme conseguenze, ne vedremmo delle belle. Se suor Diletta Pagliuca (ricordate?) maltratta i piccini affidati alle sue cure, che facciamo? Arrestiamo suor Pagliuca o chiudiamo tutti gli istituti per minori. O assai più efficacemente – ne converrete – passiamo a fil di spada tutti i piccoli orfanelli. Due. E se la via d`uscita per la vicenda dei fucilieri della marina militare italiana, Salvatore Girone e Massimiliano La Torre, fosse assai meno ‘impossibile’ di come finora è sembrata? E se quella storia, liberata dall`abnorme carico di conflitti politico-diplomatici e di tensioni emotive, e ridotta alla dimensione di una pur pesantissima controversia giudiziaria, venisse affrontata con l`equilibrio di chi voglia davvero trovare una soluzione equa? Forse, allora, un esito positivo non sarebbe irraggiungibile. Non troppo paradossalmente, a suggerire una possibile svolta non è un lungimirante diplomatico di carriera o uno stratega geopolitico: è, invece, un soggetto, l`Unione induista italiana, espressione di una religione che annovera nel nostro paese qualche decina di migliaia di adepti, e che è culto di maggioranza in India. Il presidente dell`Unione induista italiana, Franco Di Maria, ha indirizzato una lettera al primo ministro indiano e al presidente del Consiglio italiano in cui illustra un`ipotesi di soluzione. Ipotesi che ‘consentirebbe a entrambi i paesi di fare un passo indietro senza rinnegare i propri legittimi punti di vista’. Ciò permetterebbe di rinunciare a una ‘sia pur comprensibile disputa su sovranità, giurisdizione e complesse questioni di diritto internazionale’ e di entrare, finalmente, nel merito della questione. La proposta è così riassumibile: i fatti imputati ai due fucilieri (risalenti al 15 febbraio 2012), sia nell`ordinamento penale italiano che in quello indiano, possono ragionevolmente essere rubricati come omicidio colposo, dal momento che è accertata – secondo la stessa ricostruzione della polizia indiana – l`assenza di intenzionalità nell`azione che ha determinato la morte dei due pescatori. E, nell`ordinamento penale indiano come in quello italiano, quell`omicidio colposo motivatamente imputabile ai due fucilieri consentirebbe loro di avere la libertà. Ciò in virtù della scadenza dei termini della misura di custodia cautelare, prevista per quella fattispecie penale. Se quella tragica circostanza fosse stata esaminata a partire dal punto di vista suggerito dall`Unione induista italiana, le implicazioni giudiziarie, e gli stessi effetti politicodiplomatici, sarebbero stati completamente diversi. Le pene previste per l`omicidio colposo sia in Italia che in India non superano – nel massimo – i cinque anni e in India è esclusa la possibilità che le misure cautelari privative della libertà possano andare oltre la metà della pena comminabile. Quindi, con esclusiva attenzione al valore che entrambi gli ordinamenti attribuiscono alla vita umana e alla tutela della libertà personale, Girone e La Torre oggi attenderebbero l`inizio del dibattimento non più sottoposti a custodia cautelare. Su questo, unitamente al senatore Lucio Malan, ho presentato un`interrogazione al ministro degli Esteri, ma la questione oltrepassa palesemente i confini della dialettica parlamentare, in ragione della sua disarmante semplicità. Disarmante proprio perché salta a piè pari la struttura e la logica classiche delle relazioni internazionali e, appunto, il loro armamentario tradizionale; e trasferisce la controversia sul piano del diritto penale che, grazie a una fonte originaria comune, può consentire soluzioni condivise da parte di due nazioni pur così diverse. E ciò sí presta a un`ulteriore riflessione. Solo un approccio ‘religioso’ – ovvero il più lontano da una concezione statalista e statolatrica – poteva consentire l`elaborazione di un simile progetto. Quasi che solo a uno sguardo spirituale, ovvero non dipendente dal potere temporale e a esso estraneo, riuscisse di scorgere e cogliere la sostanza autentica delle cose: quella capace di limitare il più possibile la sofferenza di tutti.

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