Sono un giornalista che la pensa come Luigi Einaudi quando all’alba della nostra democrazia repubblicana, nel suo Heri dicebamus, per ricollegarsi a una lontana, drammatica interruzione del passato scriveva: Primum, informare, cioè esercitare l’attenzione a tutto ciò che accade senza indulgere alle rappresentazioni suggestive, ma per un bisogno di conoscere e approfondire, cioè di sapere e capire. E quindi l’idea che ogni modalità del comunicare debba avere piena libertà, compresa ogni tonalità critica e polemica, contestatrice e satirica del linguaggio, da cui personalmente e convintamente ho sempre escluso gli argomenti della fede e della razza. E proprio quando le cose si fanno difficili quello è il momento di volerne sapere di più per non venir meno alla conclusione che nascere, se non ci obbliga a rifare il mondo, ci assegna nondimeno il dovere della responsabilità, cioè il confronto tra ciò che è, insieme, dovuto e lecito.

Un salmista ci aveva ricordato che la creazione non è mai conclusa e quindi siamo qui per far nuove, laicamente, tutte le cose; scoprendo che conoscere è la prima possibilità di farcela e che, per usare un altro tono, lo studio, l’informazione e la politica sono i primi strumenti per affrontare i problemi del nostro vivere quotidiano e comune; e come, senza quegli strumenti, si restava a lungo incerti, divisi, persino ostili di fronte alle realtà più complesse. Ricordo come dopo l’11 settembre, si era temuto che un esasperato spirito di rivalsa giustificasse una tendenza a lenire l’offesa al nostro orgoglio occidentale lasciando cadere la punizione del terrorismo sopra “un universo di capanne”, rinunciandovi con l’idea non peregrina di risparmiarci una già inquieta reazione mondiale. Né furono ascoltate le voci di una immediata, forte, non solo civile pedagogia.

Era uno scenario che richiamava valori tra i più profondi della condizione umana; ed esigeva di non fare un tutt’uno dell’Islam e del suo irriducibile fondamentalismo, rinunciando a vedere la religione come il centro di tutti i primati possibili, a cominciare dalla “predilezione di Dio”.

Qui è d’obbligo ricordare come Giovanni Paolo II avesse invitato ad Assisi i leaders delle grandi confessioni per dire loro che a nessuna cattedra o pulpito, panca o stuoino sarebbe stato lecito pretendere che una preghiera salisse più in alto di tutte le altre. Stavano già chiarendosi le distinzioni radicali tra il vasto musulmanesimo più responsabile e la barbara scelta terrorista senza che in questo latente dissidio si leggesse, in Occidente, la crisi dello stesso concetto di equità, con il motivo o il pretesto che una vittima decisa a produrne un’altra non terrebbe in equilibrio la giustizia, ma lascerebbe sullo stesso piano due ingiustizie; né si difenderebbe il diritto, seppur tragicamente violato, quando lo si rivendicasse in modo di perderlo a sua volta rinunciando alla superiorità morale della ragione e quindi delle scelte. Ci si chiede, oggi, quali fondamenta avesse quella pace. C’era già stata la risposta di Spinoza, il filosofo olandese di famiglia ebraica che si guadagnò da vivere modellando lenti da vista. E vide infatti lontano: «Per amore della pace si può e si deve consentire a molte cose, ma se la barbarie fosse il costo di quella pace, essa sarebbe la peggiore delle sventure».

Abbiamo ascoltato, in quest’Aula, i vari motivi per dover accedere a una riflessione comune, incline alla ricerca di una grande, inedita risposta culturale, politica, interiore; cioè un pluralismo, consapevole e responsabile, nutrito dai princìpi razionali e interiori di una regola che – nel rispetto della “misura” come strumento primario della riflessione – non implichi il ridurre né l’ingrandire l’offesa; tutto, quindi, sotto la norma di una ragione che non si adagi su tolleranze o rincari, come nei compromessi di un tempo.

Questo criterio abbraccia categorie non dogmatiche, frutto di un pregiudizio civile e religioso. La politica, oggi, celebra l’abbraccio, già storico, di Parigi. Quanto alla Chiesa, e alle vere o possibili minacce, rammento le parole anticipatrici di Francesco: “Nessuno può permettersi di prendere a pretesto la religione per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali”. Furono pronunciate tre anni fa.

Un certo relativismo obietta: rimanere appesi a un’idea kantiana di pace universale significherebbe, non solo per oggi, opporre alla ragione una retorica forma di conformismo. La “guerra dei princìpi” e la “pace per principio” rischierebbero anch’esse di fornire pericolosi aloni misticheggianti. A questo proposito ha posto lucidamente la questione Umberto Eco: “Il problema è se lo scontro debba diventare una guerra di civiltà – o di cultura, che dir si voglia – ovvero una guerra tra Oriente e Occidente”.

Questo dubbio – che ha una drammatica fondatezza, si elimina laicizzando al massimo grado i termini dello scontro; ed è precisamente ciò che non giova alle numerose frange del terrorismo sanguinario islamico, al quale conviene evocare, con ogni mezzo il suo contrario, cioè la crociata.

Ora, sarebbe imperdonabile non incrementare gli strumenti dell’intelligence a partire da una catena informativa che concerti tutte le risorse della prevenzione. E’ altrettanto importante che la politica europea non si divida sulla questione del trattato di Schengen e che l’America, con Obama, si sia fatto promotore di un summit mondiale sulla sicurezza riunendo un vasto fronte che i tecnici chiamano della “dissuasione”. L’allarme di un presunto progetto terroristico volto a colpire il Vaticano dovrà ovviamente provocare una puntuale ricognizione su questo o quell’allarme.

Stiamo vivendo, anche in quest’Aula, un momento che, se ne saremo capaci, può diventare un seme di una saggezza o, se non lo saremo, di altre minacce.
Accanto a forme improprie, ideologiche di indulgenza sta infatti nascendo, anche per reazione, un estremismo razzista che si fa sempre più intollerante nei confronti di un generico mondo musulmano, senza più distinzioni di sorta. L’imprevidenza ha lasciato quasi tutto com’era. Ma New York e Parigi non sono la stessa cosa. Da questa tragedia si dovrà uscire insieme non solo con l’Europa e l’Occidente, ma anche con le vaste masse dell’islam pacifico, a cominciare dalle dichiarazioni ufficiali talvolta ancora caute, e dai coraggiosi Imman che hanno subito esecrato le complicità con il radicalismo criminale, pena il portar fascine agli appiccatori di incendi.

Occorre garantire una legalità fondata non solo sulla conoscenza dei diritti, ma anche dei delitti. Non basteranno le ragioni della morale e dell’etica.

Manlio Sgalambro, con un pizzico paradossale del suo filosofico pessimismo, ha scritto: “La pace di tutti contro tutti è più micidiale persino della guerra di tutti contro tutti. Ci sono, oggi, armi più letali che ogni uomo porta con sé, senza bisogno di arsenali”. E’ successo anche a New York, a Londra, adesso a Parigi, dove le ragioni della “misura” devono confrontarsi con le realtà da cui provengono, e gli effetti che producono. Penso all’integralismo che si dice islamico che in Nigeria, nei giorni di Parigi, secondo il principio tribale di dover punire gli “infedeli” ha ucciso, in tre giorni, duemila persone. Erano uomini, non polvere umana.

Non siamo di fronte a una apocalisse evocata, per giunta, anche linguisticamente a sproposito; ma si fa urgente la necessità di promuovere la chiamata, e soprattutto la risposta, dell’Occidente. A cominciare dall’Europa.
Se la politica si è raccolta con i suoi leaders a Parigi, non negli ovattati saloni della cosiddetta “diplomazia delle convenienze”, ciò rappresenta un rispettabile, fiducioso, obbligante auspicio. Non si tratta di blindare i nostri Paesi, che significherebbe blindare la democrazia. Basterà informare, conoscere e agire. Nella pace, prima luce della libertà e della giustizia.


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