Niente da fare. Nonostante gli appelli |e le interrogazioni perché il governo si decidesse, dopo aver abolito il ministero delle Pari opportunità, almeno a dare la delega al Dipartimento perché possa portare avanti le sue politiche e soprattutto far funzionare il piano anti violenza contro le donne, Matteo Renzi non si decide. Molte altre deleghe sono state assegnate in un Consiglio dei ministri di circa dieci giorni fa. Questa invece no. Renzi se la tiene stretta al cuore. Ed è tutto fermo. Ne parliamo con la ex vice ministra Cecilia Guerra, preoccupata che tutto il lavoro fatto vada disperso.
A che punto eravate con il piano anti violenza prima di questo lungo stop?
A un punto ottimo, ma il piano non è stato completato. Nasce come un progetto ad ampio raggio collegato al decreto legge che è stato approvato lo scorso agosto. Di piani anti violenza ce ne erano già stati altri, ma noi abbiamo voluto dare a questo un’impronta operativa che gli altri non hanno mai avuto. Un piano che potesse davvero coinvolgere, sotto il coordinamento delle Pari opportunità, tutti i soggetti e gli enti interessanti, innanzitutto gli altri ministeri, Giustizia, Interni, Salute, Esteri, Difesa… tutti sono coinvolti in un grado o nell’altro e naturalmente anche gli enti locali e la rete di associazioni che lavorano nel territorio.
Qual è stata la difficoltà maggiore che avete incontrato?
Uno dei primi obiettivi che avevamo era quello di raccogliere dati sul fenomeno della violenza contro le donne. La difficoltà è questa: i dati ci sono ma disaggregati, non si parlano tra loro. I soggetti che li raccolgono, che vanno dai presidi sanitari alle forze dell’ordine fino ai centri anti violenza, non si scambiano informazioni, e questo è un limite forte. Abbiamo istituito un gruppo, uno dei pochi che si è avvalso di contributi esterni, che ha messo a punto i criteri per la formazione di una banca dati. Un altro fattore molto importante è la valutazione del rischio, essenziale per la prevenzione.
In che modo?
Quando una donna si presenta a un centro o a un commissariato, oppure si rivolge ad un ospedale, deve essere fatta la valutazione del rischio, cioè la donna deve riempire un questionario molto articolato che permette di capire qual è la sua esposizione al rischio, al fine di il comportamento degli operatori. Il primo problema è: si può lasciarla tornare a casa o bisogna fare il possibile per evitarlo? Sappiamo che il problema della violenza domestica, quando è fisica, è nell’escalation, ma ci sono forme di violenza non fisiche che sono altrettanto pericolose. La valutazione del rischio ha una doppia funzione, per prima cosa quella di proteggere la donna ma anche di permettere che ci si rivolga all’uomo, marito, fidanzato o amante che sia, per intervenire ed eventualmente aiutare anche chi aggredisce.
Qual è la tipologia di rischio più forte?
Per esempio, se il partner della donna che chiede aiuto è un tossicodipendente o un etilista, il rischio è molto alto. Se non lo è, i fattori da valutare sono altri. Un altro aspetto importante è la formazione degli operatori. Nella mia esperienza ho visto anche tante realtà positive, che funzionano, ma non sono certo la maggioranza. Mi riferisco soprattutto a chi riceve la denuncia di violenza o abusi subiti e in particolare alle forze dell’ordine. Quello che stiamo vivendo è un momento delicatissimo, e bisogna essere preparati a ricevere la denuncia, saperla accogliere e valutare.
Una volta le donne che denunciavano il marito o il compagno al commissariato ricevevano, se andava bene, solo ‘buoni’ consigli…
Ecco in parte è ancora così. E’ onesto deve cambiare. Se una donna si rivolge alla polizia e le si dice «ma dai, cercate di andare d’accordo» o cose del genere, è probabile che la si stia rimandando tra le braccia del suo futuro assassino. Ci sono zone del Paese dove la formazione è stata fatta sulla base di progetti parziali, non si è fatto ‘sistema’. Questo era uno degli obiettivi del piano anti violenza. E spero lo sia ancora…
Qual è il timore? Che resti tutto sulla carta?
Ma, non lo so, in parte questo timore c’è proprio per la complessità del piano, che richiede una guida politica forte che in questi quasi due mesi di governo Renzi non ha avuto. Prima con l’abolizione del ministero e ora per via di questa delega ancora in capo al presidente del Consiglio. Mi permetto di dubitare, non certo delle buone intenzioni di Renzi nei confronti di questo problema, ma semplicemente del fatto che i compiti del suo ufficio gli lascino lo spazio per occuparsene. Per ora, appunto, è tutto fermo. Chi ha l’autorità politica per convocare i gruppi di lavoro del piano? Ci vuole anche una riconferma delle responsabilità, dal momento che il governo è cambiato e non c’è più il ministero. In teoria i gruppi li dovrebbe convocare Renzi stesso, ma faccio fatica a credere che con il mestiere che fa possa assumere un ruolo operativo nei confronti del piano.
Poi c’è la questione dei finanziamenti ai centri anti violenza. Anche sotto questo aspetto è tutto fermo?
Il decreto aveva due tipi di finanziamenti, uno specifico per il piano, 10 milioni nel 2013 e altrettanti nel 2014 che potranno essere dedicati a quegli aspetti che lo richiedono una volta completato il piano.
Quali sono gli interventi che vanno finanziati?
Le faccio un esempio. Là dove si prevede una formazione generale non c’è bisogno di finanziare niente, bisogna solo orientare le attività, che comunque vengono fatte e finanziate dal ministero dell’Istruzione, anche su questi campi. Ma se si crea una banca dati, un sistema integrato delle informazioni, là dove si individua un settore carente bisogna rafforzarlo anche finanziandolo, ed è il caso della valutazione del rischio. L’altro tipo di finanziamento previsto dal decreto riguardava i centri anti violenza, che hanno sempre avuto un cofinanziamento da parte delle pari opportunità nel corso degli anni attraverso i bandi. L’idea era di sistematizzare la rete di centri antiviolenza, quasi sempre strutture che si basano sul volontariato, e di dare loro un finanziamento stabile che passasse attraverso il principio che va garantita una presenza uniforme sul territorio nazionale. Il decreto dunque prevede una distribuzione di fondi alle Regioni e da queste ai centri, sulla base di una mappatura che è stata fatta in modo rigoroso, scremando quelle strutture che non erano adeguate, non fornivano garanzie di sicurezza e privacy.
Che caratteristiche deve avere un centro per funzionare bene?
Uno dei parametri è la formazione delle persone che ci lavorano dentro, da chi si occupa dell’accoglienza a chi invece tiene il collegamento con i presidi territoriali, tribunali, forze dell’ordine eccetera. Il decreto è stato in grado di garantire un finanziamento permanente. Non era una cifra enorme ma è garantita e sicura ed è fondamentale che strutture del genere non debbano riconquistarsi anno per anno la sopravvivenza. Era previsto che parte di questi fondi fossero dedicati alle start up, a nuovi centri che volessero insediarsi nelle Regioni dove i centri sono pochi o inesistenti.
Ma questi soldi sono stati erogati?
No, è tutto fermo e i centri sono agonizzanti. Questo è davvero grave soprattutto se si tiene conto che rischiamo la dispersione di un patrimonio – fondamentalmente su base volontaria – di competenze anche giuridiche molti utili.
Voi vi siete posti anche il problema, quando è possibile, del recupero dell’aggressore. In che modo?
È un percorso difficile, ma possibile, soprattutto quando è lo stesso aggressore a chiedere aiuto. A volte però sono le donne a segnalarli ed è una situazione delicata che richiede grande competenza; la maggior parte degli uomini che usa violenza a una donna pensa di aver ragione o, quanto meno, di non fare niente di davvero grave. Ho ascoltato interviste a uomini che tendevano a sottovalutare grandemente il loro comportamento, ad attribuirlo a un ruolo. È un grande problema culturale di questo Paese che attraversa non solo tutte le condizioni economiche, ma anche tutti i livelli culturali. L’aggressore è spesso un uomo facoltoso e con un buon grado di istruzione, che non accetta che la donna abbia una affermazione sociale più forte della sua. Per questo ci siamo posti il problema di intervenire anche sugli uomini, ma non è un’idea largamente condivisa. Molti dicevano: le risorse sono poche, dedichiamole alle donne. Ma questo taglia fuori i protagonisti della violenza, che sono gli uomini, e se non riusciamo a trasmettere loro il messaggio decisivo sulla violenza agiremo sempre solo in difesa.
A che punto eravate con il piano anti violenza prima di questo lungo stop?
A un punto ottimo, ma il piano non è stato completato. Nasce come un progetto ad ampio raggio collegato al decreto legge che è stato approvato lo scorso agosto. Di piani anti violenza ce ne erano già stati altri, ma noi abbiamo voluto dare a questo un’impronta operativa che gli altri non hanno mai avuto. Un piano che potesse davvero coinvolgere, sotto il coordinamento delle Pari opportunità, tutti i soggetti e gli enti interessanti, innanzitutto gli altri ministeri, Giustizia, Interni, Salute, Esteri, Difesa… tutti sono coinvolti in un grado o nell’altro e naturalmente anche gli enti locali e la rete di associazioni che lavorano nel territorio.
Qual è stata la difficoltà maggiore che avete incontrato?
Uno dei primi obiettivi che avevamo era quello di raccogliere dati sul fenomeno della violenza contro le donne. La difficoltà è questa: i dati ci sono ma disaggregati, non si parlano tra loro. I soggetti che li raccolgono, che vanno dai presidi sanitari alle forze dell’ordine fino ai centri anti violenza, non si scambiano informazioni, e questo è un limite forte. Abbiamo istituito un gruppo, uno dei pochi che si è avvalso di contributi esterni, che ha messo a punto i criteri per la formazione di una banca dati. Un altro fattore molto importante è la valutazione del rischio, essenziale per la prevenzione.
In che modo?
Quando una donna si presenta a un centro o a un commissariato, oppure si rivolge ad un ospedale, deve essere fatta la valutazione del rischio, cioè la donna deve riempire un questionario molto articolato che permette di capire qual è la sua esposizione al rischio, al fine di il comportamento degli operatori. Il primo problema è: si può lasciarla tornare a casa o bisogna fare il possibile per evitarlo? Sappiamo che il problema della violenza domestica, quando è fisica, è nell’escalation, ma ci sono forme di violenza non fisiche che sono altrettanto pericolose. La valutazione del rischio ha una doppia funzione, per prima cosa quella di proteggere la donna ma anche di permettere che ci si rivolga all’uomo, marito, fidanzato o amante che sia, per intervenire ed eventualmente aiutare anche chi aggredisce.
Qual è la tipologia di rischio più forte?
Per esempio, se il partner della donna che chiede aiuto è un tossicodipendente o un etilista, il rischio è molto alto. Se non lo è, i fattori da valutare sono altri. Un altro aspetto importante è la formazione degli operatori. Nella mia esperienza ho visto anche tante realtà positive, che funzionano, ma non sono certo la maggioranza. Mi riferisco soprattutto a chi riceve la denuncia di violenza o abusi subiti e in particolare alle forze dell’ordine. Quello che stiamo vivendo è un momento delicatissimo, e bisogna essere preparati a ricevere la denuncia, saperla accogliere e valutare.
Una volta le donne che denunciavano il marito o il compagno al commissariato ricevevano, se andava bene, solo ‘buoni’ consigli…
Ecco in parte è ancora così. E’ onesto deve cambiare. Se una donna si rivolge alla polizia e le si dice «ma dai, cercate di andare d’accordo» o cose del genere, è probabile che la si stia rimandando tra le braccia del suo futuro assassino. Ci sono zone del Paese dove la formazione è stata fatta sulla base di progetti parziali, non si è fatto ‘sistema’. Questo era uno degli obiettivi del piano anti violenza. E spero lo sia ancora…
Qual è il timore? Che resti tutto sulla carta?
Ma, non lo so, in parte questo timore c’è proprio per la complessità del piano, che richiede una guida politica forte che in questi quasi due mesi di governo Renzi non ha avuto. Prima con l’abolizione del ministero e ora per via di questa delega ancora in capo al presidente del Consiglio. Mi permetto di dubitare, non certo delle buone intenzioni di Renzi nei confronti di questo problema, ma semplicemente del fatto che i compiti del suo ufficio gli lascino lo spazio per occuparsene. Per ora, appunto, è tutto fermo. Chi ha l’autorità politica per convocare i gruppi di lavoro del piano? Ci vuole anche una riconferma delle responsabilità, dal momento che il governo è cambiato e non c’è più il ministero. In teoria i gruppi li dovrebbe convocare Renzi stesso, ma faccio fatica a credere che con il mestiere che fa possa assumere un ruolo operativo nei confronti del piano.
Poi c’è la questione dei finanziamenti ai centri anti violenza. Anche sotto questo aspetto è tutto fermo?
Il decreto aveva due tipi di finanziamenti, uno specifico per il piano, 10 milioni nel 2013 e altrettanti nel 2014 che potranno essere dedicati a quegli aspetti che lo richiedono una volta completato il piano.
Quali sono gli interventi che vanno finanziati?
Le faccio un esempio. Là dove si prevede una formazione generale non c’è bisogno di finanziare niente, bisogna solo orientare le attività, che comunque vengono fatte e finanziate dal ministero dell’Istruzione, anche su questi campi. Ma se si crea una banca dati, un sistema integrato delle informazioni, là dove si individua un settore carente bisogna rafforzarlo anche finanziandolo, ed è il caso della valutazione del rischio. L’altro tipo di finanziamento previsto dal decreto riguardava i centri anti violenza, che hanno sempre avuto un cofinanziamento da parte delle pari opportunità nel corso degli anni attraverso i bandi. L’idea era di sistematizzare la rete di centri antiviolenza, quasi sempre strutture che si basano sul volontariato, e di dare loro un finanziamento stabile che passasse attraverso il principio che va garantita una presenza uniforme sul territorio nazionale. Il decreto dunque prevede una distribuzione di fondi alle Regioni e da queste ai centri, sulla base di una mappatura che è stata fatta in modo rigoroso, scremando quelle strutture che non erano adeguate, non fornivano garanzie di sicurezza e privacy.
Che caratteristiche deve avere un centro per funzionare bene?
Uno dei parametri è la formazione delle persone che ci lavorano dentro, da chi si occupa dell’accoglienza a chi invece tiene il collegamento con i presidi territoriali, tribunali, forze dell’ordine eccetera. Il decreto è stato in grado di garantire un finanziamento permanente. Non era una cifra enorme ma è garantita e sicura ed è fondamentale che strutture del genere non debbano riconquistarsi anno per anno la sopravvivenza. Era previsto che parte di questi fondi fossero dedicati alle start up, a nuovi centri che volessero insediarsi nelle Regioni dove i centri sono pochi o inesistenti.
Ma questi soldi sono stati erogati?
No, è tutto fermo e i centri sono agonizzanti. Questo è davvero grave soprattutto se si tiene conto che rischiamo la dispersione di un patrimonio – fondamentalmente su base volontaria – di competenze anche giuridiche molti utili.
Voi vi siete posti anche il problema, quando è possibile, del recupero dell’aggressore. In che modo?
È un percorso difficile, ma possibile, soprattutto quando è lo stesso aggressore a chiedere aiuto. A volte però sono le donne a segnalarli ed è una situazione delicata che richiede grande competenza; la maggior parte degli uomini che usa violenza a una donna pensa di aver ragione o, quanto meno, di non fare niente di davvero grave. Ho ascoltato interviste a uomini che tendevano a sottovalutare grandemente il loro comportamento, ad attribuirlo a un ruolo. È un grande problema culturale di questo Paese che attraversa non solo tutte le condizioni economiche, ma anche tutti i livelli culturali. L’aggressore è spesso un uomo facoltoso e con un buon grado di istruzione, che non accetta che la donna abbia una affermazione sociale più forte della sua. Per questo ci siamo posti il problema di intervenire anche sugli uomini, ma non è un’idea largamente condivisa. Molti dicevano: le risorse sono poche, dedichiamole alle donne. Ma questo taglia fuori i protagonisti della violenza, che sono gli uomini, e se non riusciamo a trasmettere loro il messaggio decisivo sulla violenza agiremo sempre solo in difesa.