Caro direttore, gli ultimi articoli di Dario Di Vico dal fronte dei disoccupati e degli occupati male, sempre straordinariamente densi di stimoli preziosi e di informazioni su una realtà poco conosciuta, mi inducono a proporre una riflessione, fondata sulla mia esperienza del mondo del lavoro maturata nell`arco di ormai quasi mezzo secolo.
Quando, nel `69, incominciai a occuparmi di lavoro in qualità di sindacalista della Fiom Cgil,impegnato nella contrattazione aziendale alla periferia nord di Milano, la situazione era questa: fatta ioo la produttività standard di un operaio-tipo, quello che in concreto aveva una produttività inferiore si attestava intorno a quota 90, raramente si arrivava al limite minimo
di 8o, mentre quello più produttivo potevaarrivare a 13o, 14o, raramente a 150. In altre parole, il rapporto tra il più e il meno produttivo non arrivava neppure a 2.
All`incirca la stessa cosa si poteva dire degli impiegati con funzioni esecutive, che si trattasse di dattilografia, mansioni inerenti alla contabilità aziendale, segreteria d`ufficio, reception o centralino. Quelli essendo i valori, era molto sensato che le assunzioni avvenissero «all`ingrosso», senza approfondite selezioni; e che un contratto collettivo nazionale fissasse
la retribuzione base in riferimento alla produttività standard, un contratto aziendale eventualmente prevedesse un premio per chi era più produttivo rispetto allo standard, e per il resto i più produttivi compensassero il deficit di produttività degli altri, anche in nome di quella che allora veniva chiamata solidarietà di classe.
Oggi la situazione è totalmente cambiata. Un`azienda che intenda assumere un addetto a mansioni anche di livello basso, come quelle di addetto a un magazzino, a una reception, o a mansioni semplici di ufficio, e che sottoponga i candidati a un test attitudinale elementare, può trovarsi di fronte a risultati che indicano differenze di produttività da 100 a 10.000. Per esempio, se il test consiste nella ricerca di tutti i ristoranti operanti in una determinata zona della città, ci sarà un candidato che è in grado di sfornare un tabulato più o meno completo nel giro di cinque minuti, mentre un altro non ci riesce neanche in cinque ore: sulla performance incide, infatti, la capacità di usare il computer, la dimestichezza con Internet,
l`inventiva, l`emotività e altro ancora.
Se poi dai livelli esecutivi più bassi si passa a quelli di concetto, o addirittura a quelli del lavoro creativo, la gamma delle produttività individuali, risultanti in parte dalle capacità individuali di avvalersi dei nuovi strumenti, si allarga a dismisura. E se a questo aggiungiamo che chi si colloca ai livelli più bassi soffre oggi molto più che cinquant`anni fa della concorrenza della manodopera dei Paesi in via di sviluppo, vuoi per effetto dei flussi migratori, vuoi per effetto della mobilità enormemente maggiore delle merci, dei servizi e dei capitali (bloccare i flussi migratori, anche se fosse possibile, non basterebbe), si comprende perché la gamma delle retribuzioni si sia enormemente divaricata rispetto a mezzo secolo fa.
In altre parole, per semplificare al massimo: tra chi sa soltanto confezionare o recapitare una pizza e chi sa individuare i suoi potenziali consumatori e gli ingredienti della stessa pizza a loro più graditi, come raccoglierne in modo più efficiente le ordinazioni e i pagamenti e come organizzare le consegne, si è determinata una distanza molto maggiore nel mercato del lavoro rispetto a quella che separava cinquant`anni fa, o anche solo venticinque, il pizzaiolo o il fattorino più produttivo da quello più imbranato.
Così stando le cose, la domanda che dobbiamo porci – mi sembra – è questa: il contratto collettivo nazionale di settore, con il suo inquadramento professionale in sette o otto livelli e i suoi minimi retributivi riferiti a ciascun livello, può costituire ancora lo strumento principale e più efficace di protezione dei lavoratori più deboli? O non è forse più ragionevole, per ridurre la loro debolezza, puntare su di un sistema di informazione, anzitutto, ma anche di formazione e riqualificazione professionale, che consenta anche al lavoratore più debole di salire lungo la scala delle produttività individuali e poter dunque rendersi appetibile per imprese che valorizzino meglio il suo lavoro?
Certo, questo secondo strumento è molto più difficile da attivare, rispetto al contratto collettivo nazionale; ma se è soprattutto di questo che oggi hanno bisogno i lavoratori più deboli, perché i sindacati non dedicano tutte le loro energie a rivendicare e favorire la costituzione di quel sistema di informazione e formazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali effettivi, che in Italia oggi quasi dappertutto manca totalmente? O per il lavoro debole qualcuno ha da proporre qualche sistema di protezione più efficace?