Le magistrature di Milano e di Taranto hanno emesso da tempo provvedimenti di sequestro delle ricchezze della famiglia Riva e del suo gruppo. Il filone di indagine per evasione fiscale guidato dal procuratore Francesco Greco ha portato al sequestro di 1.2 miliardi di euro detenuti dai trust promossi dai Riva in Jersey, di cui 1 miliardo circa è depositato presso Ubs Fiduciaria a Zurigo, e gli altri 200 milioni sono in Italia, presso Banca Aletti & Co. La richiesta del Commissario Gnudi di trasferire la somma all’Ilva è stata accolta dal Gip di Milano Fabrizio D’Arcangelo ed è ora in fase esecutiva.
Questi capitali rappresentano una importante risorsa per il risanamento ambientale del gruppo siderurgico, a patto che il decreto legge 1/2015 (Decreto-legge ILVA e sviluppo di Taranto) sia modificato in modo tale da offrire all’amministrazione straordinaria il titolo giuridico per incassare le somme oggi in Svizzera. A questo fine il Presidente della Commissione Industria Massimo Mucchetti ha presentato uno specifico emendamento.
Oltre agli 1.2 miliardi già sequestrati, la Procura di Milano ha congelato all’estero altri 700 milioni, che fanno capo ad Adriano Riva, fratello di Emilio, storico patron dell’Ilva deceduto lo scorso aprile.
La Procura di Milano segue altri tre filoni investigativi per frode fiscale nei confronti della famiglia Riva.
Il primo riguarda un giro di derivati con Deutsche Bank, per cui Ilva ha già pagato 180 milioni di euro e il cui processo penale è attualmente in dibattimento a Milano. Un secondo filone di indagini per truffa ai danni dello Stato, legata all’utilizzo improprio di fondi Simest, ha portato in pochi mesi alla condanna a 6 anni e mezzo di Fabio Riva, attualmente latitante a Londra.
Nell’ambito di questo processo, ha spiegato Greco, è avvenuta la confisca di 100 milioni di euro, in gran parte costituiti da denaro contante o immobili siti in Italia, che sono a disposizione dal Commissario governativo quando ne farà formalmente richiesta.
Un ultimo filone di indagini riguarda le relazioni tra Ilva e Riva Fire. Il rapporto tra le società era regolato da un contratto che prevedeva un’erogazione media di circa 150 milioni annui di Ilva alla controllante (Riva Fire), cifra battezzata dal precedente Commissario Enrico Bondi la “tassa del Califfo”.
Le analisi della società di revisione PwC hanno rilevato che il contratto di prestazione di servizi poteva vedere un’erogazione massima di 10-15 milioni annui. Il differenziale tra gli importi segnala una modalità alternativa di liquidazione degli utili di Ilva ai suoi soci, su cui gli inquirenti milanesi stanno accertando il reato di frode fiscale.

Questi capitali rappresentano una importante risorsa per il risanamento ambientale del gruppo siderurgico, a patto che il decreto legge 1/2015 (Decreto-legge ILVA e sviluppo di Taranto) sia modificato in modo tale da offrire all’amministrazione straordinaria il titolo giuridico per incassare le somme oggi in Svizzera. A questo fine il Presidente della Commissione Industria Massimo Mucchetti ha presentato uno specifico emendamento.
Oltre agli 1.2 miliardi già sequestrati, la Procura di Milano ha congelato all’estero altri 700 milioni, che fanno capo ad Adriano Riva, fratello di Emilio, storico patron dell’Ilva deceduto lo scorso aprile.
La Procura di Milano segue altri tre filoni investigativi per frode fiscale nei confronti della famiglia Riva.
Il primo riguarda un giro di derivati con Deutsche Bank, per cui Ilva ha già pagato 180 milioni di euro e il cui processo penale è attualmente in dibattimento a Milano. Un secondo filone di indagini per truffa ai danni dello Stato, legata all’utilizzo improprio di fondi Simest, ha portato in pochi mesi alla condanna a 6 anni e mezzo di Fabio Riva, attualmente latitante a Londra.
Nell’ambito di questo processo, ha spiegato Greco, è avvenuta la confisca di 100 milioni di euro, in gran parte costituiti da denaro contante o immobili siti in Italia, che sono a disposizione dal Commissario governativo quando ne farà formalmente richiesta.
Un ultimo filone di indagini riguarda le relazioni tra Ilva e Riva Fire. Il rapporto tra le società era regolato da un contratto che prevedeva un’erogazione media di circa 150 milioni annui di Ilva alla controllante (Riva Fire), cifra battezzata dal precedente Commissario Enrico Bondi la “tassa del Califfo”.
Le analisi della società di revisione PwC hanno rilevato che il contratto di prestazione di servizi poteva vedere un’erogazione massima di 10-15 milioni annui. Il differenziale tra gli importi segnala una modalità alternativa di liquidazione degli utili di Ilva ai suoi soci, su cui gli inquirenti milanesi stanno accertando il reato di frode fiscale.