L’ Italia non può perdere la siderurgia e soltanto lo Stato può salvarla ma non è materia da dilettanti allo sbaraglio». Massimo Mucchetti, eletto nelle liste del Partito democratico e presidente della Commissione Industria del Senato, ritiene che il governo «debba assumersi le sue responsabilità senza dare deleghe in bianco ai privati» perché, spiega, «non sempre si sono mostrati all’altezza».
Quali sono gli errori da evitare?
«L’acciaio pubblico ha avuto le sue infinite tristezze, ma è stato l’architrave del boom negli anni 50 e 60 Se avessimo dato retta alla Falck e non a Oscar Sinigaglia non avremmo mai avuto gli altoforni che hanno alimentato l’industria meccanica nazionale. Le privatizzazioni dell’Iri-Finsider, invece, sono state un disastro. Purtroppo. Falck e Agarini hanno rivenduto ben presto la Terni alla ThyssenKrupp, che l’ha spolpata trasferendo in Germania la tecnologia del lamierino magnetico e ora la vuole ridurre ai minimi. Il gruppo Lucchini, che pure con il materiale ferroviario conferma la vocazione industriale, ha dovuto cedere le Acciaierie di Piombino ai russi di Severstal che le hanno portate al crac. I Riva hanno guadagnato molto con l’Ilva, ma con luci e ombre».
Quali?
«Hanno tagliato i rapporti tra l’Ilva e la criminalità organizzata pugliese. Grande merito. Ma non hanno rispettato i vincoli ambientali. Grande miopia, che consegna la fabbrica a una magistratura, quella di Taranto, ispirata anche da pregiudizi anti industriali. Le privatizzazioni e l’internazionalizzazione delle proprietà, cardini degli anni 90, si sono dimostrate poco efficaci. Almeno in siderurgia».
Come uscirne?
«Il governo punta a sconti sulla bolletta elettrica per i siderurgici. Ok, ma se per ogni crisi d’imprese energivore batte questa strada e poi non realizza nemmeno la cartolarizzazione degli incentivi alle energie rinnovabili, come farà a tenere fede alla riduzione del 10% della bolletta per le piccole e medie imprese, promessa nel decreto Competitività? Occorre maggior capacità esecutiva. E, a questo punto, non si può più escludere l’intervento dello Stato nel capitale a rischio. Certo, il Renzi thatcheriano che plaude a Sergio Marchionne dovrà mettersi d’accordo con il Renzi statalista nell’acciaio. Ma basterà un tweet».
Verrà coinvolta la Cassa depositi e prestiti?
«Gorno Tempini (l’amministratore delegato della Cdp, ndr) ha ribadito in Senato che può intervenire solo in aziende sane. Dunque non nell’Ilva o a Piombino, ma solo nel capitale di società interessate a rilanciare queste aziende. Va bene ma, per evitare che la prudenza scada a ipocrisia, lo Stato deve metterci la faccia. Per l’Ilva si parla di Arvedi o Marcegaglia, gruppi fortemente indebitati. Se la Cdp li vuote ricapitalizzare è un conto e va seguito un certo percorso. Se invece lo vuole fare in funzione dell’Ilva occorre massima chiarezza sull’entità dell’investimento e sulla governance».
Condivide il progetto della cordata d’imprenditori siderurgici organizzata per produrre a Piombino il cosiddetto pre-ridotto, cioè semilavorati da utilizzare nell’alimentazione dell’acciaieria?
«E come no? Servirebbe a Piombino, agli industriali bresciani e pure a Taranto. Ho chiamato Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, a riferircene in Senato. Intanto noto come gli stessi imprenditori, soltanto pochi mesi fa, avevano bocciato un piano analogo dell’ex commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Bondi, ritenendolo antieconomico. Ma gli industriali possono essere anche capiti: hanno i loro tempi nel leggere le tendenze dei prezzi del gas e del minerale e i loro interessi specifici. Il problema è se il governo, subalterno a industriali e banche, liquida Bondi e dà mandato per vendere l’Ilva a un nuovo commissario, il peraltro ottimo Piero Gnudi, bruciandogli i vascelli alle spalle. Un errore drammatico. Ma, con un pò di sale in zucca, siamo ancora in tempo per recuperare»,

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