Mandela e quel faticoso percorso verso la rinuncia alla lotta armata e verso la nonviolenza
Nel profluvio, inevitabile e talvolta anche commovente di articoli su Nelson Mandela, quello che più mi ha colpito è stato pubblicato sabato scorso da Repubblica a firma di Bernardo Valli. E` come se, sorprendentemente, nell`epoca della comunicazione onnipervasiva e parossistica, degli archivi senza fondo e degli immani giacimenti di notizie, solo la testimonianza oculare e la vitalità della memoria di un ultraottantenne fossero in grado di offrirci il senso più profondo e, come in questo caso, più antico di una vicenda umana. L`articolo di Valli introduce, nella rappresentazione rituale di Mandela, quell`elemento storico e politico che contraddice una celebrazione devozionale e dà corpo, sangue e concretezza emotiva alla sua figura. Nel marzo del 1960, racconta Valli (risvegliando in me la traccia di un esilissimo ricordo), la polizia del governo guidato da Hendrik Verwoerd (teorico e realizzatore del regime di apartheid) attacca una manifestazione contro l`inasprimento della legge sui lasciapassare, sparando ad altezza d`uomo e causando 69 morti e 180 feriti. Per Mandela, quel massacro costituisce un punto di svolta e una rottura traumatica, che lo induce a ritenere necessario e indifferibile il ricorso alla lotta armata: ‘Visitò clandestinamente almeno dieci paesi africani, dall`Etiopia all`Algeria, per imparare l`arte del guerriero e quindi apprendere l`uso degli esplosivi e il funzionamento di mitra e pistole’. Successivamente Mandela argomenterà così quella scelta: ‘A determinare il tipo di azione è sempre l`oppressore; l`oppresso non può che scegliere la forza, se l`oppressore la usa contro le legittime aspirazioni popolari’. Dunque, la scelta e, poi, la teorizzazione della nonviolenza – come, allo stesso tempo, metodo e contenuto, strumento e strategia – arriveranno al termine di un percorso faticoso e contraddittorio. Un percorso dove la nonviolenza si pone e si definisce in maniera inequivocabilmente differente dall`ideologia del pacifismo. E sarà quella stessa ispirazione nonviolenta a nutrire la straordinaria e pressoché unica esperienza della commissione per la Verità e la riconciliazione, una volta sconfitto il regime di apartheid (si vedano in proposito i saggi di Marcello Flores). Al di là del tratto biografico, pur così significativo, sono il senso politico e il senso etico rivelati dall`opzione per la nonviolenza, a costituire il lascito più prezioso della testimonianza di Mandela. Come già hanno mostrato gli importantissimi lavori di Pier Cesare Bori e Gianni Sofri su Mahatma Gandhi, la nonviolenza non è un assoluto né tanto meno un`astrazione morale o una metafisica. E’, piuttosto, un itinerario di formazione e maturazione, che rinuncia all`utilizzo degli strumenti della sopraffazione fisica perché fatalmente destinati a fallire rispetto allo scopo, a rivelarsi impotenti, a produrre più costi che benefici (dove per costi si devono intendere sia i danni morali che quelli materiali). Ma tutto ciò parte da un presupposto che non può essere né eluso né sottovalutato: la tentazione della violenza è presente in profondità non dico insita (questione controversa e per me oscura) – nella personalità e nella stessa antropologia dell`essere umano. Tanto più quando ‘l`ira per l`ingiustizia fa roca la voce’ e arma le mani: talvolta quelle dei più miti.
 Fermare l`incrudelimento
 Di conseguenza, rinunciare alla violenza è esercizio arduo: e proprio perché ‘a determinare il tipo di azione è sempre l`oppressore; l`oppresso non può che scegliere la forza, se l`oppressore la usa contro le legittime aspirazioni popolari’. E` qui che contenuto politico e contenuto etico della nonviolenza si incontrano e si combinano: perché rinunciare alla violenza significa adottare un repertorio d`azione diverso, che esprime l`autonomia di chi vi ricorre e la sua capacità di operare in uno spazio non imposto dal nemico. D`altra parte, cambiare campo e sistema d`azione offre maggiore opportunità di efficacia e di successo; e contribuisce a interrompere una spirale di incrudelimento, destinata fatalmente a precipitare in una sorta di nichilismo dei mezzi. Fino a trovare lì il fondamento ‘tecnico’ della nequizia morale della barbarie.

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