Volano gli stracci nel Partito dei 5 stelle. E, la parola d`ordine ritmata, lo slogan scandito, il grido di guerra roco è così riassumibile: il più pulito c`ha la rogna. E` l`ultimo capitolo, oscillante tra pochade e psicodramma, tra gli Squallor e la sceneggiata napoletana, tra l`Asilo Mariuccia e l`intransigentismo robespierriano di un`antica saga. Il capitolo precedente ha avuto come protagonista Antonio Ingroia, il quale – nel suo attuale ruolo di commissario liquidatore di una società pubblica siciliana – sarebbe stato colto in fallo. Avrebbe assunto, cioè, ‘un grappolo di raccomandati, tradizionale pacchetto di scambio della Palermo di sempre, un po` clientelare e un po` criminale’ (il Fatto, 24 gennaio). E` come se un intero ciclo e l`epopea sopra costruita giungessero a conclusione. Ma più che un percorso storico, ciò che arriva a compimento è un vertiginoso processo dialettico: una insidiosissima peripezia mentale che, infine, rovina nel disastro. Tutto questo è riassumibile in quel motto, dall`origine incerta, che così recita: ‘Il puro più puro che epura l`impuro’. Sì, in effetti, Ingroía rappresenta l`ultimo atto possibile della tragicommedia del sospetto (ma è assai probabile che altri seguiranno). Ovvero la finis terrae morale dove gli è capitato di trovarsi, dopo che tutti coloro che lo hanno preceduto – un`infinita schiera – sono stati via via guardati con diffidenza, osservati con perplessità e scrutati con crescente sfiducia perché non più puri. O perché perlomeno meno puri. Il che ne determinava prima la stigmatizzazione poi l`ostracismo. La scansione delle sequenze di questa feroce epurazione etica registra un numero davvero imponente di giustizieri trasformati in giustiziati e di puri epurati. In un quarto di secolo, sono sfilati davanti a noi decine di personaggi di questa eccitata rappresentazione dell`assolutismo morale: Leoluca Orlando, Antonio Di Pietro, Alfredo Galasso, Carmine Mancuso, padre Ennio Pintacuda, Elio Veltri, Massimo Fini, Sonia Alfano, Luigi de Magistris, Marco Travaglio, Beppe Grillo, Paolo Barnard (e ciascuno di essi portava con sé almeno un epigono). Ma poi c`è la variante schiettamente di destra rappresentata da Maurizio Gasparri e da Roberto Castelli e tanti altri e, infine, un`articolazione soidisant di sinistra (troppi i nomi: non vorrei fare un torto a qualcuno citando, che so, il solo Oliviero Diliberto). Il loro destino è stato un`eterna reiterazione dello stesso schema, una fulminante ascesa, durata per un periodo variabile, con tanto di spada fiammeggiante in pugno, poi una fase di titubante incertezza e, infine, la Caduta. Sia chiaro: la ragione della caduta è stata, in genere, una trascurabile minchiata. Che diventava abnorme e per il quadro di parossistica tensione in cui si realizzava e per lo sguardo alterato di chi la giudicava e condannava. E` così anche in questo caso, dove le argomentazioni portate da Ingroia in una correttissima intervista di Antonello Caporale (sul Fatto prima citato) appaiono plausibili. Ed è esattamente quanto è accaduto già nella Scena Originaria che ha segnato il momento più incandescente nello sviluppo della tragicommedia in questione. Ovvero il conflitto tra Giuseppe D`Avanzo e Marco Travaglio nel maggio e, poi, nel settembre del 2008. Una sorta di parabola nera o, se preferite, di apologo penitenziale sulle perversioni alle quali può condurre l`immoralità dei moralisti. All`origine c`è una vacanza trascorsa da Marco Travaglio e dai suoi familiari insieme a un maresciallo della Guardia di Finanza, Giuseppe Ciuro, in servizio nell`ufficio di Antonio Ingroia presso la procura di Palermo, poi condannato in appello a 4 anni e 8 mesi per favoreggiamento e violazione di segreti informatici. E ciò a vantaggio del costruttore Michele Aiello, a sua volta condannato per associazione mafiosa. Secondo l`avvocato di Aiello sarebbe stato quest`ultimo a pagare interamente o in parte la vacanza di Travaglio. L`accusato dimostrò che si trattava di una fandonia: c`era stata la frequentazione, ma il giornalista aveva pagato tutto di tasca propria. Personalmente non ho mai creduto a quell`accusa (e quanto da me scritto all`epoca lo dimostra), e lo stesso vale per D`Avanzo, ma l`inviato di Repubblica utilizzò quella vicenda per criticare radicalmente il ‘metodo Travaglio’. E dimostrò che questi, in quella circostanza, era stato vittima esattamente della stessa tecnica, non certo inventata da lui (c`è tutta una tradizione maleodorante) ma da lui portata alle estreme e più efferate conseguenze. Travaglio, all`epoca, mostrò di non aver compreso in alcun modo quanto gli veniva attribuito e reagì con veemenza e con l`esibizione di documenti contabili che nessuno si era mai sognato di chiedergli. Gli succede: davanti a qualunque accenno, anche esile, di complessità dialettica, Travaglio s`ingaglioffisce. Perse dunque l`occasione della sua vita e s`irrigidì in una postura stilistica e argomentativa che lo portò a rappresentare – certo, in maniera eccellente un modello di giornalismo che non finisce di provocare danni incalcolabili. Si tratta di un modello totalmente immorale, fondato su disprezzo della domanda cruciale, postagli da D`Avanzo, alla quale non volle (e più probabilmente non seppe) rispondere, né allora né successivamente: ‘Che cos`è un `fatto`, dunque? Un `fatto` ci indica sempre una verità? O l`apparente evidenza di un `fatto` ci deve rendere guardinghi, più prudenti perché può indurci in errore?’ (G. D`Avanzo, Repubblica, 14 maggio 2008). Il quesito sul ‘fatto’ è estremamente interessante, intanto perché interpella radicalmente quell`atteggiamento e quella cultura che, qualche tempo dopo, daranno vita alla pubblicazione dello stesso Fatto quotidiano. E, poi, perché l`interrogativo non troverà mai una risposta da parte di Travaglio (e dei suoi epigoni): a lui le sole domande che interessano sono quelle poste dai pubblici ministeri ai suoi nemici politici.
Ps. L`aspetto sgradevole delle controversie con Travaglio è che non gli riesce proprio di evitare di porla sul piano personale. Mentre a me, sul piano personale, di lui poco interessa. Per me Travaglio è irraggiungibile: troppo famoso, troppo fortunato, troppo ricco, troppo mondano, troppo blandito dai media e troppo in soggezione di fronte a Silvio Berlusconi (ricordate?) e di fronte a Flavio Briatore (ricordate?). Nulla di personale, dunque: Travaglio è solo un pretesto per riflettere su una catastrofe intellettuale e morale, della quale, per sua fortuna, non è consapevole.

Ne Parlano