La solitudine del morente. Perchè è urgente una nuova forma di obiezione di coscienza
L’obiezione di coscienza non si esprime necessariamente in una negazione, nel rifiuto di una disposizione, nel sottrarsi a un obbligo che si avverte come contrario ai propri principi. Lo ha spiegato bene Ivan Scalfarotto), sottosegretario per i rapporti con il Parlamento: l’obiezione di coscienza può avere una sua versione in positivo. Come affermazione di un valore e come testimonianza di una verità. E quella che segue è, appunto, l’obiezione di coscienza pronunciata da Scalfarotto giovedì scorso: ‘Il mio, più che un intervento, è il racconto di una storia. Una stona che comincia a settembre dell’anno scorso quando, a Genova, su invito di Marco Cappato, firmai per la legge di iniziativa popolare sull’eutanasia. Ne scrissi sul mio blog, in un post nel quale citavo, fra l’altro, la scelta di Mario Monicelli. Poche ore dopo comparve un commento, firmato con lo pseudonimo utilizzato da mio padre per intervenire nelle discussioni. Così mio padre: ‘Davanti a un suicidio più d’uno parla di un momento di depressione o di follia. Vero? Soltanto in parte. Può darsi che in un momento di depressione o di follia maturi in qualcuno l’idea del suicidio, ma non è detto che sia sempre così. Il suicidio può avvenire anche in un momento di lucida razionalità, una persona ben pensante (due parole), che sente di avere speso la sua vita tutto sommato bene, di aver ben seminato, che sinora non ha mai avuto nessuno che si occupasse della sua igiene personale o della sua sopravvivenza materiale, senza bisogno che qualcuno gli spieghi le cose semplici, che i giovani capiscono subito. Questa persona, se comprende che non è più necessaria ad alcuno, finché è in buona salute, prima che comincino le sofferenze della senilità oggettivamente sopraggiunta, può decidere di togliere il disturbo. È un po’ come alzarsi da tavola con ancora una punta di appetito, è un atto di grande saggezza. Non è depressione, meno che mai follia. E’ una scelta, ponderata e razionale”. Dopo aver letto quel messaggio, Scalfarotto così proseguiva: ‘Era il 6 settembre del 2013. L’8 ottobre il mio papà si è tolto la vita. Quel suo messaggio era un po’ il suo testamento spirituale, che mi ha raccontato, appunto, di una scelta lucida e razionale. Papà non era depresso, decise di togliersi la vita. Quello che mi dispiace è che lo abbia dovuto fare in maniera scomoda, in una situazione che non era quella protetta e dignitosa che io avrei voluto potesse utilizzare, Aveva preso una decisione, che era irrevocabile e l’ha perseguita con determinazione. Non si è ucciso per caso’. Così Scalfarotto concludeva: ‘Dopo questa esperienza, una cosa che mi sembrava giusta per principio si è trasformata improvvisamente in un’urgenza. Oggi, quando penso che sono un parlamentare, un legislatore, mi sembra di essere debitore di mio padre. Mi sembra di mancare nei confronti di una persona che – dopo aver descritto con parole precise una scelta consapevole – non è stata poi messa nelle condizioni di portarla a termine fra i suoi cari, in una condizione protetta. La mia è soltanto una testimonianza e ve la lascio perché credo che nelle vite di molti di noi ci siano situazioni simili a questa, o diverse da questa ma che tuttavia conducono nello stesso luogo Nel nostro strano paese i progetti di vita delle persone, che comprendono anche la scelta di come morire, sono considerati un lusso. Dovremmo fare un sforzo per provare a trattarci reciprocamente come adulti. Si tratta di argomenti difficili, sui quali sembra d’obbligo fare un birignao di diffidenza. Ma non preoccupiamoci di essere in pochi, perché tutte le grandi battaglie di civiltà sono cominciate da minoranze sparute, ma molto tenaci’. Le parole di Scalfarotto hanno aperto il convegno dal titolo ‘La dignità nel morire. Fine vita, eutanasia e testamento biologico’, tenutosi il 17 dicembre scorso e promosso dalle associazioni Luca Coscioni e A Buon Diritto, da molti anni attive nella mobilitazione per il riconoscimento delle Direttive anticipate di trattamento, all’interno di un complessivo discorso sulla libertà terapeutica e sull’autodeterminazione del paziente. In particolare, l’associazione Luca Coscioni, guidata da Filomena Gallo e Marco Gentili, da Marco Cappato e Mina Welby, si batte per la legalizzazione dell’eutanasia e già nel settembre del 2013 ha presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge di iniziativa popolare in materia. Da allora a oggi, quel disegno di legge non è stato calendarizzato né preso in considerazione in alcun modo: ovvero non se ne è discusso in una sola sede parlamentare, rimanendo ai margini del dibattito pubblico. Il convegno della scorsa settimana ha avuto il merito di affrontare il tema con tutta la consapevolezza che questioni così cruciali e laceranti impongono, a partire da testimonianze di persone che hanno avuto a che fare direttamente con le tematiche di fine vita e con tutto il loro carico di sofferenza. E a partire da una riflessione intensa e tutt’altro che semplice tra approcci teorici e opzioni culturali non coincidenti. In tutti, nei più critici verso il disegno di legge (come Paolo Zatti) e nei più convinti fautori (come Gilberto Corbellini), e nei sostenitori ‘tremebondi’ (come chi scrive) e nell’argomentazione giuridica di Stefano Rodotà, la comune convinzione che un problema essenziale sia quello di affrontare con saggezza ciò che Norbert Elias, in un testo memorabile, chiamò ‘la solitudine del morente’.

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