Quando la legge è eccessiva. Perchè in Italia tutto ciò che non è autorizzato viene interdetto
Lo scorso 13 febbraio il Belgio ha dato il via libera definitivo alla modifica della legge del 28 maggio 2002 in materia di eutanasia per gli adulti, estendendola anche ai minori. Per la prima volta al mondo un paese accetta il principio che anche un bambino, senza limiti minimi di età, possa chiedere di smettere di vivere perché sia posta fine alle sue sofferenze. La legge stabilisce che l’eutanasia si applichi a minori affetti da una malattia incurabile allo stadio terminale, accompagnata da sofferenze psichiche e fisiche ‘costanti e insopportabili’ (e non anche solo psichiche, come per gli adulti) e da una prognosi di morte prossima. Minori che siano in grado di discernere nella propria decisione – facoltà che va accertata da psicologi e psichiatri – purché ci sia il consenso dei genitori.
Dico subito che, pur confusamente favorevole alla legge belga, proverei una grande difficoltà nell’argomentare e nel sostenere pubblicamente e normativamente quanto essa prevede. Ma – e lo dichiaro senza vergogna e senza iattanza – non sono convinto che mi opporrei. La questione è, palesemente, delicatissima, e altrettanto delicata è la risposta che offre, al quesito morale sotteso, Giovanni Belardelli: ‘Lo Stato regola già un’infinità di ambiti della nostra esistenza; ma almeno quel terreno di passaggio, che sta tra la vita e la morte di un bambino nella condizione di malato terminale, dovrebbe essere lasciato alla straziata sollecitudine dei genitori e alla compassionevole cura di medici che ormai dispongono di molti modi per evitare l’accanimento terapeutico e la percezione del dolore’ (Corriere della Sera, 15 febbraio). Queste parole rivelano equilibrio e tatto, prudenza e perfino una certa severa dolcezza. Ed è un grande merito, ma forse non adeguato all’enormità del problema. La risposta di Belardelli esprime una saggezza, o almeno un buon senso, cui si è fatto ricorso più volte in questi anni per affrontare alcuni drammatici dilemmi etici.
Si pensi alla controversia sulla revocabilità o meno di misure come nutrizione e idratazione artificiali e sull’opportunità o meno di regolamentarle per legge; ma anche a una certa critica nei confronti di provvedimenti come i matrimoni omosessuali. Per ragioni diverse ma non così lontane tra loro, nell’un caso come nell’altro (ma anche in tanti altri ancora), si è manifestata una risposta per così dire ‘moderata’: va tutelata una ‘zona grigia’, dove lo stato arretri o non intervenga, lasciando che sia l’autonomia individuale e la responsabilità del singolo e dei singoli ad asssumere la decisione. Ripeto: c’è molta sag­gezza in questo perché è vero che l’inter­ferenza statuale, anche nella forma equili­brata di una legge (e della legge ‘più legge­ra’), rischia di risultare comunque ecce­dente, di operare forzature e prevaricazio­ni, di agire grossolanamente, per generaliz­zazioni e categorizzazioni. In altre parole, la legge – in determinati ambiti e in certe circostanze – è sempre eccessiva. Finendo col prevaricare inevitabilmente sul caso individuale e sulla peculiare e irripetibi­le soggettività del singolo. Di conseguenza, non è facile rispondere alla seguente obie­zione: perché mai deve essere una legge a decidere su qualcosa di così infinitamente opinabile, discrezionale e personale come la continuazione o meno di un trattamen­to medico? E perché mai – su tutt’altro pia­no – dovrebbe essere una legge a definire gli ambiti, le garanzie e le responsabilità di una scelta d’amore come l’unione tra ap­partenenti allo stesso sesso? Certo, la più elementare risposta già offre una risposta: se la legge opera in quel senso per una cop­pia eterosessuale, perché mai non dovreb­be farlo per una coppia omosessuale? Det­to questo, c’è da chiedersi se vi siano altre ragioni, al di là di un’esigenza di perequa­zione e parità, perché una coppia omoses­suale voglia che sia una norma statuale a riconoscere ciò che il reciproco desiderio ha già riconosciuto. A ben vedere, la rispo­sta a tutti i casi qui accennati è la medesi­ma: perché, in assenza di una legge al tem­po stesso universalistica e articolata, sarà l’arbitrio fatalmente a dominare.
E un argomento più complessivo è pro­babilmente il seguente: ogni diritto, per potersi affermare – essere esigibile – ri­chiede una trascrizione normativa. Ma si può obiettare, e io stesso obietterei, che nel caso dell’eutanasia o del matrimonio omosessuale è improprio parlare di dirit­ti, così come lo era nel caso dell’interru­zione volontaria della gravidanza. Si deve far riferimento, piuttosto, a un generale di­ritto all’autodeterminazione e, più ancora, alla garanzia della classica libertà negati­va. Ovvero, la libertà da (dolore non lenibile, gravidanza non desiderata, discrimi­nazione sessuale, trattamenti sanitari non voluti…). Tutto ciò in Italia assume una pregnanza ancora maggiore. Viviamo al­l’interno di un ordinamento e di un siste­ma dove tutto ciò che non è normativamen­te previsto viene represso o, comunque, svalorizzato e non tutelato. E tutto ciò che non sia esplicitamente autorizzato viene interdetto. Nasce da qui un certo bisogno incontenibile – e in buona parte difensivo – di diritti. La ‘zona grigia’ in Italia ten­de infallibilmente ad assumere la tonalità del nero.

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