Caro direttore, se proprio proprio dovessi definirla, questa indirizzata a te e al tuo giornale, è una ‘lettera sentimentale’. Non ti inquietare, nessuna implicazione troppo privata, ma solo una sottolineatura della componente emotiva e, quindi, per certi versi anche sentimentale, delle considerazioni che qui farò. Tu sei più giovane di me e ci siamo incrociati, nel corso delle nostre vite, solo occasionalmente e per brevi periodi. 
Poi a partire dalla fine degli anni Ottanta, le nostre faccende pubbliche si sono mosse parallelamente ma su ritmi assai diversi. Ne11989 se non ricordo male, mi hai rimbrottato dalle colonne del Manifesto perché avrei liquidato, con troppa fretta e troppa superficialità, l`esperienza e la cultura e il senso profondo del dirsi (o forse del volersi) comunista. Poi, nei due successivi decenni, l`uno correva e l`altro si attardava, io indugiavo su categorie che tu ritenevi obsolete e tu mi apparivi troppo precipitoso nel voler superare incrostazioni politiche indubitabilmente arrugginite. Ma, va detto, ci siamo anche scambiati le parti e, di conseguenza, qualche volta ero io a correre e tu a ostentare una certa flemma.
Dico ciò con allegria perché l`ultima cosa al mondo che mi interessa è la gara tra chi ne ha azzeccate di più o ne ha sbagliate di meno. E, tuttavia, una vicenda recente mi ha fatto ripensare a tutto questo, portandomi a concludere che – al di là di strappi o di surplace, di accelerazioni o di rallentamenti – si deve sempre cercare, disperatamente cercare, il cuore essenziale delle motivazioni e delle finalità di ciò che chiamiamo politica. Il cuore essenziale può essere, per molti versi, qualcosa di estremamente modesto (o che così appare). Una manifestazione di quel riformismo pratico pragmatico, ma davvero pragmatico – che sembra risultare così poco interessante per tantissima parte della classe politica. Nel caso specifico, e nella mia esperienza personale recente, mi riferisco a un piccolo risultato appena conseguito. A scanso di equivoci, preciso subito che parlerò tanto di me proprio per parlare d`altro: ovvero di ciò che ognuno di noi, in buona fede, può fare o tentare di fare, persino oltre i narcisismi e le vanità, le inclinazioni e le manie, le passioni e le ossessioni.
 Dunque, il 21 ottobre scorso, il parlamento ha approvato in via definitiva un emendamento alla legge Europea, presentato dal senatore Sergio Lo Giudice e da me. Quell`emendamento ha ridotto il tempo massimo di trattenimento all`interno dei centri di identificazione e di espulsione (Cie) a novanta giorni, dai precedenti diciotto mesi. In effetti, si tratta di un ben esile risultato, che non porta a eliminare quei luoghi orribili che sono i Cie e che non risolve, e nemmeno contribuisce a risolvere, la grande questione dell`immigrazione straniera in Italia. E tuttavia, lo dico candidamente, mi sento molto soddisfatto: e voglio spiegare, qui, le ragioni di questa soddisfazione perché potrebbero esemplificare efficacemente un ragionamento che forse non interessa solo me. E che, per vie magari contorte, costituisce la mia risposta al quesito posto da Matteo Renzi domenica scorsa, a conclusione dei lavori della Leopolda: «Sarà bello capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o se è più di sinistra prevedere il futuro, innovare, cambiarlo e andarci insieme. Staremo a vedere. Lo decideranno i cittadini, qual è la sinistra in grado di vincere e di convincere».
 Ripartiamo, pertanto, da quel trascurabile episodio che è l`approvazione dell`emendamento di cui ho detto. Ridurre di quindici mesi il periodo di permanenza coatta in un orrendo non-luogo, precipitato in una dimensione di non tempo – questo è il Cie – è sufficiente a dare un senso a due questioni che mi stanno particolarmente a cuore. La prima: argomentare una mia collocazione politica che si ~le, nonostante tutto, testardamente a sinistra. La seconda: attribuire una sostanza e una giusta causa alla mia attuale attività parlamentare. Si dirà: ti accontenti di assai poco. Ed è vero, ma quel poco si potrà tradurre in un numero assai minore di stranieri reclusi per un tempo assai minore di quello finora stabilito: il che corrisponde alla riduzione concreta di una certa quota di sofferenza, patita d`ora in poi dai trattenuti nei Cie. E questo mi sembra un risultato, per un verso, altissimamente politico e, per l`altro verso, sufficiente a giustificare la mia attività parlamentare.
Dico ciò, va da sé, sulla base di una comparazione empirica, misurata in senso strettamente materiale, con altre destinazioni possibili della medesima attività parlamentare. In altre parole: se dedicassi le stesse energie e risorse a una finalità più strettamente connessa al quotidiano lavoro del senato (in questa o in quella commissione), e più coerente con gli obiettivi tradizionali di un programma politico di sinistra, il risultato ottenibile sarebbe altrettanto concreto e altrettanto concretamente misurabile? E ancora: dove rintracciare, nella discussione di queste settimane, e nella defi- nizione dell`identità delle diverse componenti della sinistra, qualcosa di così chiaramente definibile ‘di sinistra’ come quel modestissimo emendamento?
Insomma, senza farla troppo lunga e, soprattutto, senza fare di sé e di ciò che si riesce a combinare non dico il centro del mondo, ma nemmeno il centro di un articolo, il mio ragionamento è il seguente. Ciascuno deve trovare le ragioni della propria auto-identificazione politica e anche i buoni motivi per ‘giustificare’ il proprio ruolo parlamentare, e l`indennità conseguente, in uno o più obiettivi da perseguire. Obiettivi che siano allo stesso tempo tangibili e significativi. Tangibili in quanto capaci di cambiare, molto o poco (o anche pochissimo), le cose; e significativi perché in grado di indicare nitidamente un orientamento culturale e politico, un`opzione di schieramento, una parte in cui riconoscersi e collocarsi.
D`altronde, lo ripeto, mi accontento di poco. Anche perché tutto il resto o gran parte di tutto il resto lo dico senza alcuna iattanza, credetemi – mi appare vuoto chiacchiericcio, ritualità rassicurante e agonismo simulato. E, dunque, me ne tengo alla larga perché lo ritengo, in buona sostanza, mera rappresentazione retorica. Tanto più mentre diventa sempre più parossistica la polemica su maggioranza e minoranza, sui poteri della leadership e sulle garanzie per il dissenso, sul nuovo e sul vecchio, definiti con criteri enologici o attraverso parametri radiometrici. E mentre, proprio in queste ore, viene evocata la possibilità di una scissione nel Partito democratico; e sento ripetere, ancora una volta, spericolate previsioni su «i grandi spazi che si aprono a sinistra». Dio ce ne scampi e liberi, mi viene da dire, smarrito al cospetto di così tanta beata ingenuità.

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