L’ancora oscura vicenda di Alma Shalabayeva e di sua figlia mostra in filigrana la sorte di altre migliaia di persone. Ogni mese, dai Cie italiani, una motitudine di persone anonime, spesso senza avvocati e senza alcune risorse, nè tutela o relazione, ven
Secondo Amnesty International, l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia di sei anni, Alua, ha rappresentato ”un atto contrario al diritto internazionale, peraltro con procedura sommaria e persino sconosciuta alle nostre autorità politiche”. La questione è che moglie e figlia di un oppositore politico del despota kazako Nazarbayev sono state espulse dall’Italia, con un provvedimento sul quale dovrà essere fatta chiarezza, verso un Paese che non da alcuna garanzia dal punto di vista della tutela dei diritti umani. Un paese dove – a detta della gran parte degli organismi internazionali – viene praticata costantemente la tortura, e dal quale il marito della donna espulsa, Mukhtar Ablyazov, era fuggito, riparando all’estero. Un fatto oscuro, repentino, scandaloso. Ma è l’evento che ha condotto alla procedura di espulsione a risultare ancora più incredibilmente oscuro, repentino, e, per queste ed altre ragioni, scandaloso. Secondo le dichiarazioni rese alla stampa estera (Financial Times), la notte tra il 28 e il 29 maggio, Alma Shalabayeva dormiva in una villa a Casal Palocco, con sua figlia: quando, all’improvviso, fu svegliata da un forte rumore. Molti uomini picchiavano contro le finestre e alla porta. In 35 o più sono entrati in casa, ma nessuno, al momento dell’irruzione, ha capito chi fossero (non Alma né la sorella o il cognato, anch’essi nella villa). ‘Erano vestiti di nero. Alcuni di loro avevano catene d’oro al collo, molti avevano la barba’, ha dichiarato la Shalabayeva. Cercavano Mukhtar Ablyazov, marito della Shalabayeva, miliardario kazako, accusato di numerosi reati comuni e oppositore di Nazarbayev. Ma lui non c’era e gli uomini ordinarono a madre e figlia di vestirsi e di venire via. Le fasi prima del rimpatrio. Seguirono, a stretto giro, il trasferimento prima in una stazione di polizia poi all’Ufficio Immigrazione, quindi al Cie di Ponte Galeria. Infine all’aeroporto di Ciampino dove madre e figlia vennero imbarcate su un jet privato diretto ad Astana, capitale del Kazakhstan. Questi i fatti in estrema sintesi. La prima svolta arriva con la sentenza del tribunale del Riesame del 25 giugno. Nell’ordinanza i giudici affermano che l’espulsione di Alma Shalabayeva si basava su un assunto che si sarebbe rivelato falso: ovvero che la signora fosse in possesso di un passaporto diplomatico contraffatto, rilasciato dalla Repubblica Centrafricana. Il Tribunale non è di questo parere: oltretutto, la Shalabayeva sarebbe in possesso di un permesso di soggiorno rilasciato dalla Lettonia, paese di area Schengen, valido fino a ottobre. Tutto quello che c’è ancora da definire. Questi i fatti ignorati dalle autorità italiane di Polizia: ed è quanto ha indotto il Consiglio dei ministri, venerdì scorso, ad annunciare la revoca del decreto di espulsione. Quella revoca, temiamo, sarà puramente virtuale. Difficile, molto difficile che si tradurrà nell’elementare atto di giustizia di consentire ad Alma Shalabayeva e a sua figlia di tornare in Italia, o in un paese più ospitale del nostro, godendo di una effettiva protezione internazionale. Ma, allo stato attuale delle cose, molte altre questioni restano da definire. Al di là delle responsabilità politiche dei Ministri coinvolti, e dell’accertamento puntuale del livello di conoscenza diretta da parte degli stessi dei fatti accaduti, resta cruciale un interrogativo: i funzionari che hanno agito, ottemperando incredibilmente alle disposizioni ricevute dall’ambasciatore kazako, erano a conoscenza della doppia identità di Mukhtar Ablyazov? Ovvero del fatto che si trattava, si, di un latitante ricercato dall’Interpol, ma anche del principale oppositore politico di un dittatore? La malinconica sensazione. Infine, è impossibile sottrarsi ad una malinconica sensazione: Alma Shalabayeva e sua figlia hanno subito una sorte terribile, che le espone tuttora a rischi e pericoli, ma la loro vicenda non è così rara e anomala. Tutt’altro. Ogni mese, dai Centri di identificazione ed espulsione italiani, decine e decine di persone anonime, spesso senza avvocati e senza alcuna risorsa, senza alcuna tutela e alcuna relazione, vengono caricate su aerei (‘vettori’) e riportati in patria. In una patria da cui sono fuggiti perché perseguitati o incarcerati, minacciati o discriminati o perché, semplicemente, disperati. Centinaia e centinaia di persone che, talvolta, hanno la possibilità di esporre le proprie ragioni e di argomentare la richiesta di protezione, ma altrettante volte non sono in grado di comunicare, farsi ascoltare, chiedere soccorso. La vicenda di Ama e Alua mostra in filigrana – e attraverso una luce spietata – una moltitudine di espulsi senza nome e senza causa.

Ne Parlano