Il testo dell’intervento in Aula
Non è più tempo di memoria. Essa attarda il presente e ritarda il futuro, si dice. A tale processo, che ha qualcosa di mostruoso, ha messo mano chi, avendo dell’esistenza e della Storia un sentimento quotidiano e indistinto, vorrebbe liberarsi da ogni responsabilità precedente.

Toglierci la memoria significherebbe privarci di gran parte dell’identità, e offrire alla Storia l’alibi di un’innocenza che non ha mai avuto, non ha, ed è bene non abbia neppure domani. Essere nuovi tutti i giorni deve pur costare qualcosa, compresi i ricordi. Memoria, infatti, non è l’accurato ricordo che si lascia scoprire in qualche archivio del tempo, bensì il mondo delle cose capite e fraintese, affrontate, respinte e imposte.

L’era atomica aveva reso tutti più scaltri e un poco più coscienti. Dopo Hiroshima e Nagasaki, per esempio, abbiamo teso l’orecchio alle parole, dette come in confessione, dei padri della nuova civiltà. A quelle di Albert Einstein: «Tutti i pacifisti devono avere uno scopo: convincere i popoli che la guerra è il colmo dell’immoralità»; e a quelle di Niels Bohrn, premio Nobel per la fisica, che confidò a Robert Oppenheimer: «Adesso, quando mi viene un’idea, mi prende anche una tentazione di suicidio»; o alla riflessione di Gandhi: «Il mondo è stanco di odio. La non-violenza è la più alta qualità del cuore, è una lotta più attiva e reale della stessa legge del taglione»; o agli incubi di Claude Eatherly, il pilota-pilotato su Hiroshima, che continuò a vedere ogni notte donne e bambini fondere come candele, ossessionato dal ricordo di quel giorno, quand’era «un bravo ragazzo, un soldato disciplinato» (è la definizione dei suoi superiori), «un povero imbecille inconsapevole» (secondo quello che dirà di sé, più tardi); o all’avvertimento di Albert Camus: «Ci accorgiamo sempre di più che la pace è l’unica battaglia in cui valga la pena di battersi», e al bilancio di Bernanos: «Ho visto tanti morti nella mia vita, ma più morto di tutti è il ragazzo che io fui».
Penso, infine, all’epigrafe di quel giudice di Norimberga che così bollò gli anni dell’ira:
«Mai l’uomo aveva rinnegato tanto se stesso, mai con tanta determinazione e ferocia». Siamo ingrigiti nel troppo tempo concesso alla dimenticanza, persino alla menzogna. Adesso, per giunta, la Storia non trascina più le cose con l’antica lentezza, ma sembra farle correre insieme con noi.

Lo storico Biagio De Giovanni ha scritto, con un filo di paradosso, che d’ora in poi «il futuro dovrà già essere, di continuo, nell’attualità»: costringere la Storia, insomma, a stare sotto i nostri occhi, pronta a farsi giudicare finché si è in tempo. Specie oggi, quando cioè la velocità della Storia, scrivono gli apocalittici, è “una continua rincorsa tra informazione e la catastrofe.”

Un uomo è un uomo per ciò che la sua storia gli ha aggiunto e gli ha tolto, per come ha vissuto le crescite e le privazioni, persino per il modo in cui essa perdura e si sfalda nella nostra memoria. Chissà se, nel togliersi la vita, Primo Levi è stato assalito dal frastuono o dal silenzio lasciatogli dalla sua storia. «Un uomo che è stato torturato rimane torturato», aveva detto. Voglio pensare anch’io che Primo Levi sia morto di ricordo. La memoria è, in qualche modo, ciò che ci permette di esistere e di esprimerci. «Essa – scrisse Borges, uno scrittore e un poeta molto lontano dalle vocazioni e dall’esperienza di Levi – è la nostra coerenza, il nostro sentire, persino il nostro agire. Senza il ricordo non siamo nulla, non resta che aspettare l’amnesia finale, che cancella una vita intera».

Più di settant’anni fa, un’avanguardia dell’armata Rossa entrava nel campo di Auschwitz. Il filosofo Theodor Adorno disse che non sarebbe stato più possibile scrivere una poesia. Credo che avesse ragione quando si pronunciava contro l’«estetizzazione», per dir così, della sofferenza, giudicandola un modo di trasferire i contenuti dentro la cornice pur nobile dell’effetto, e dell’enfasi, anziché del nudo giudizio. La tesi di Adorno, non del tutto paradossale, mi è parsa chiara ascoltando una donna ebrea intervistata nella trasmissione I giorni e la storia. L’anziana signora, che aveva perduto a Dachau tutti i suoi cari, ed era sfuggita non si sa come alla camera a gas, dichiarava di voler vivere a lungo perché, morto chi vide, nessun altro, neppure il più reputato degli storici o degli scrittori o dei poeti potrà rendere credibile quel crimine. Un giorno, voleva dire la donna, tutto rimarrà affidato alle volenterose, ma incredibili rievocazioni ideologiche, alle rappresentazioni drammaturgiche, se non addirittura all’ingenua superfetazione dei cantastorie.

Un grande salto generazionale, inedito nella sua irrevocabilità, ha come cancellato vita e morte di chi visse l’onta immane del secolo: la Shoah! Oggi il mondo ha una memoria che comincia al di qua dell’immane peccato del cosiddetto secolo “breve”, breve perché stordito e sopito dagli effetti della velocità che l’etere ha impresso a tutto quanto sta sul pianeta.
Ho visto e ascoltato i nostri giovani stupirsi per il ricrearsi di uno scenario nel quale abbiamo visto la vita dimezzata, rubata, bruciata, e adesso persino negata, sebbene cinquanta milioni di croci siano lì – per tutti, non solo per chi c’era – a dire che la memoria non è una sbiadita coscienza che ha già concluso il suo cammino, ma ciò che tiene in vita quella coscienza; perché ricordare, nel senso che qui intendiamo, è semplicemente un dovere etico, e farne passare la lezione lungo le generazioni è una pedagogia paterna, cioè fondata su un amore anche di carne e spirito, prima ancora che civile, che scorre direi nelle vene di una continuità filiale prima ancora che sulle pagine dettate dalla storia.

Un giovane, Simone Lussu, scrisse a Indro Montanelli – ricordo bene lo sconcerto di Indro, e nostro, quando leggemmo quella “stanza” – dicendosi straziato alla vista del massacro di migliaia e migliaia di giovani nel film di Spielberg “Salvate il soldato Ryan” e chiedendo allo storico, oltre che al giornalista, quale fondamento avesse la tragica vicenda. Montanelli rispose: “Caro Simone, quanti anni hai? Penso che siano pochi, se ti stupisci che la seconda guerra mondiale sia costata la vita a tanti giovani come te, o poco più vecchi. Chi vuoi che le facciano le guerre, se non i giovani? Nell’ultima ne sono morti non a migliaia, ma a milioni E tu hai dovuto aspettare un film per rendertene conto? Non avevi mai letto un libro sulla seconda guerra mondiale? (…) Il mio è soltanto stupore per l’ignoranza che rilevo dalle lettere dei miei più giovani corrispondenti, dei fatti (e che fatti!) accaduti non nel Medio Evo, ma pochi decenni orsono, ragazzo mio”.

Montanelli, che di norma non faceva sconti – per la verità neppure a se stesso – aveva risparmiato al suo lettore la notizia che, in quegli anni, “passarono per il camino” sei milioni di ebrei, e che quel genocidio si chiama Shoah. Ma con chi prendersela? Solo con quei ragazzi o con una scuola che sforna cittadini privi dei più elementari saperi, cioè sprovveduti e immaturi? “Tutto quello che non so – scrisse Ennio Flaiano – l’ho imparato a scuola!”, certo risparmiando i maestri, gli insegnanti e i docenti che, ricevendo ben poco, hanno dato tanto alle istituzioni delegate.

Se davvero il Novecento, per far posto al futuro, dovesse chiudersi con la cancellazione del passato, saremmo come risucchiati, tanti sacchi vuoti, dal dopo. Ma è impossibile, come è inutile, chiedersi qual è il destino dell’uomo, perché noi stessi siamo il nostro destino.

E’ un concitato momento della politica, l’affollarsi quotidiano dei suoi problemi, si sente dire. Una cosa è certa: il mondo ha oggi una memoria che comincia al di qua di quell’immane peccato. Ho in mente un esempio ingenuo e tremendo, risvegliatomi dall’innocenza dei bambini intervistati, tanti anni fa, durante la rievocazione della retata nazista in “Piazza Giudia”. In un intervallo delle riprese mi venne vicino un ragazzetto che, con una punta di zelo, mi fa: “Il mio nonno e la mia nonna sono usciti da un camino dopo che li hanno bruciati insieme a molti altri familiari. D’inverno non guardo più i tetti, mi fa impressione vedere il fumo che esce…“ Una donna mi portò una vecchia foto, e mi domandava se volevo filmarla. “Se vuole può anche tenerla, ne abbiamo tante… Sono persone tutte morte, i miei genitori, i fratelli e i parenti. Io, mi hanno detto che avevo qualche mese, e allora non li ho mai visti…”. Le SS non mi hanno presa e così non sono morta!

Basta una generazione e dietro, per i ragazzi d’oggi, c’è il buio. Ai cancelli dell’Olimpico si presenta un giovane dall’aspetto civile, che reca un cartello su cui ha scritto: “Ebrei, gasáti o ferrarelle?”. Un agente glielo sfila dalle mani e il giovane gli dà un calcio in uno stinco L’agente, con procedura d’urgenza, e fuori ordinanza, gli sfascia il cartello sulla testa.

Qualche applauso, ma anche qualche protesta. E’ un lascito di qualcosa che fa durare l’equivoco, il pregiudizio, l’ambiguità, l’ignoranza. C’è più di un motivo, ancora, per tornarci su. Abbiamo fatto il nostro dovere, un sentimento, speriamo, ritrovato non solo in quest’Aula. Perché non si debba più dire, di fronte alla tragedia di quegli anni, che le farfalle continuarono a posarsi, indifferentemente, sui vinti uccisi e sui vincitori addormentati. La dignità dell’uomo non tollera una immagine solo in apparenza poetica; in realtà pessimistica, persino feroce, che fa tutt’uno – di un fenomeno per dir così quasi naturalistico – in una tragica metafora. Quanto al negazionismo è già scellerata, e persino infame, solo la parola.

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