«La prima cosa da fare a Napoli è riunire gli iscritti e gli amministratori per chiedere una mano, mettendo
da parte i capibastone. Fare invece un congresso, senza prima smontare le vecchie logiche di potere, rischia
di dar vita a un momento in cui si rafforzano quelle dinamiche sbagliate piuttosto che cambiare davvero». Franco Mirabelli, 56 anni, senatore milanese e capogruppo in Antimafia, è il commissario del Pd in provincia di Caserta dal 29 febbraio scorso. Non è interessato a estendere l`incarico anche a Napoli, ma qualche suggerimento lo affida. Del resto lui ha appena incassato il successo in quattro grandi Comuni su sei al voto, tra cui il capoluogo. Tutti strappati al centrodestra. E ha appena annunciato l`avvio della “fase 2”
del suo mandato: ricostruire il Pd in Terra di Lavoro. In quasi quattro mesi di lavoro è riuscito a rimettere in carreggiata i D emocrat dilaniati dalle faide interne. Certo le percentuali non sono entusiasmanti (a Caserta il partito è bloccato poco sopra l’11 per cento), ma la coalizione di centrosinistra è stata ricostruita, tanto che da più parti (ultimi iVerdi regionali) si parla di «modello Caserta».
Commissario Mirabelli, dalla sua esperienza la Campania è davvero un territorio così difficile per il Pd?
«Sì, ci sono dinamiche complesse che durano da tempo. Ma abbiamo fatto il nostro dovere: schierare il partito, è il minimo sindacale. Tuttavia il Pd rischia ancora di essere in molte realtà senza appeal neanche per chivorrebbe partecipare alla vita politica. Il partito è ancora troppo legato a tessere e correnti».
Che bilancio traccia del suo lavoro finora?
«Un vero bilancio si farà se riusciremo davvero a costruire un Pd degli iscritti e degli amministratori, capace di costruire gli anticorpi anche rispetto all`opacità e all`illegalità».
Per Napoli sarebbe meglio un commissario o un congresso subito?
«Fare un congresso in queste condizioni, con il nodo anche del tesseramento, è rischioso. Se non si smontano
prima le logiche di potere, il congresso rischia di essere il momento in cui si rafforzano dinamiche sbagliate piuttosto che cambiare»
Le linee guida della sua esperienza sono un modello replicabile anche a Napoli?
«La situazione napoletana è più complicata. La storia del radicamento e della forza del Pd non è uguale a
Caserta. Intanto a Napoli c`è un gruppo dirigente molto più esteso e diviso: le figure di riferimento che determinano i destini del partito partenopeo sono molto più forti e presenti che a Caserta, dove c`era un vuoto. A Napoli potremmo dire che c`è un troppo pieno. Ciò che però dobbiamo provare a replicare dall`esperienza di Caserta è l`idea che il partito è capace di guardare fuori da se stesso, dagli opportunismi e dagli interessi di questa o quella componente, che spesso nulla hanno a che fare con la politica. Poi c`è l`altra questione su cui ha ragione Renzi: per il Pd il tema del cambiamento sui territori
non è una narrazione percepita, non viene interpretato. Ricostruire un`organizzazione di partito che
guardi fuori e non dentro, raccogliere la domanda di politica buona che c`è, fare tesoro delle esperienze degli amministratori: questo è il Pd che dobbiamo fare anche a Napoli».
Che consiglio darebbe per il futuro del Pd napoletano?
«Qualunque sia la strada che si sceglierà, la prima cosa da fare è riunire gli iscritti, gli amministratori e chiedere una mano per cambiare le logiche. Quella da non fare è riunire i capibastone. Così bisogna rompere
il meccanismo per cui la dialettica dentro il partito è fatta tra componenti personali, in cui troppo spesso
prevale il bisogno di assecondare chi può portare i voti rispetto alle scelte giuste da fare per migliorare i
territori».


Ne Parlano