Dopo sette lunghi giorni, il Governo ha finalmente trasmesso al Parlamento la Nota di aggiornamento al DEF, che delinea gli elementi fondamentali della manovra di bilancio per il triennio 2019-2021.
La lettura del documento e delle tabelle conferma una serie di criticità e ne fa emergere altre.
La prima: tanta assistenza, pochissima crescita.
La manovra 2019 vale più o meno 40 miliardi. Soldi dei contribuenti. Come verranno usati? In gran parte per assistenza e previdenza (16 miliardi tra reddito di cittadinanza e pensioni a quota 100) e per bloccare l’aumento di IVA e accise nel 2019 (12,5 miliardi). Nel 2019 gli interessi sul debito pubblico ci costeranno 3 miliardi in più rispetto a quanto si prevedeva ad aprile. E’ il prezzo dell’inaffidabilità di un governo che per 4 mesi si è esercitato in un tira-e-molla quotidiano di promesse e annunci contraddittori, facendo impennare lo spread Bund-Btp da 130 a 290 punti e con esso tutti i tassi di interesse.
Per la crescita, rimangono le briciole: 3-4 miliardi di risorse aggiuntive per gli investimenti pubblici nel 2019 e poco altro per gli investimenti privati. Tutto tace su scuola, università, ricerca e sviluppo. Il futuro, insomma, è assente.
Il ministro Tria insiste molto sul rilancio degli investimenti. Tutto giusto. Ma queste buone intenzioni rischiano di rimanere sulla carta, visto l’andazzo del governo: il ministro Toninelli sta bloccando grandi opere per decine di miliardi (Gronda di Genova, TAV, Pedemontana lombarda, ecc.) e non ha nemmeno ripartito i 38 miliardi stanziati dal governo Gentiloni con la legge di bilancio 2018.
La seconda: troppo debito, usato male.
I 40 miliardi della manovra 2019 vengono coperti con un condono (chiamato poeticamente “pace fiscale”), una spruzzata di tagli ai ministeri, l’abolizione di alcune agevolazioni fiscali e – soprattutto – con tanto deficit pubblico, che in rapporto al PIL passa da 1,2 a 2,4 nel 2019; da 0,7 a 2,1 nel 2020; da 0,5 a 1,8 nel 2021. In tre anni sono almeno 80 miliardi di debito pubblico in più rispetto alle previsioni “tendenziali”. A questi andrebbero aggiunti 10 miliardi di teoriche entrate da privatizzazioni (che non verranno mai fatte) e le clausole di salvaguardia IVA (che dal 2020 in poi verranno annullate solo in parte). Se il deficit aggiuntivo venisse usato per dare una forte spinta alla crescita, la cosa avrebbe un senso. Il problema è che questi 80-90 miliardi vengono usati male. I costi di questa politica dissennata ricadranno inesorabilmente sui contribuenti (che dovranno pagare più tasse e avranno meno servizi pubblici), a partire dai più giovani.
Terza criticità: una manovra appesa a previsioni lunari.
La composizione della manovra (tanta assistenza, poca crescita) rende assai poco plausibili le previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica. L’economia mondiale sta rallentando (in primis a causa delle spinte protezioniste di quel Trump così caro a Salvini e Di Maio…) e l’Italia con essa. Eppure, grazie alla manovra giallo-verde nel 2019 la crescita del PIL schizzerebbe dallo 0,9 per cento attualmente previsto ad uno stupefacente 1,5 per cento (1,6 nel 2020 e 1,4 nel 2021). Questo ritrovato dinamismo economico permetterebbe di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL dal 130,9 per cento del 2018 al 126,7 del 2021. Sono numeri lunari, fantasiosi. A cui difficilmente crederanno gli operatori finanziari e le agenzie di rating. Aspettiamoci un autunno molto turbolento.
Quarto punto: lo scontro con l’Europa per ragioni di campagna elettorale.
La manovra del governo Conte è fuori da tutte le regole europee. La relazione al Parlamento dovrebbe contenere un “piano di rientro” verso l’obiettivo di medio termine (l’equilibrio di bilancio), ma non indica nemmeno l’anno entro cui rientrare. Intendiamoci: quelle europee sono regole da cambiare, a partire dal Fiscal compact. Ma qui il tema è un altro: Salvini e Di Maio stanno cercando deliberatamente e ostentatamente lo scontro con la Commissione UE per farci un pezzo di campagna elettorale. I sovranisti difensori del popolo contro l’Europa matrigna. E’ una scelta cinica e avventurista, che rischiamo di pagare cara su altri fronti. Il nostro primo problema non sono le istituzioni europee, ma i compratori del nostro debito (che per il 70% sono italiani). Nel 2019 dovremo vendere 375 miliardi di titoli di Stato. Non sarà una passeggiata.
Diciamocelo: la Terza Repubblica di Di Maio e Salvini sembra tanto un ritorno alla Prima. Il “governo del cambiamento” sta mandando in onda un film molto simile a quelli in voga negli anni Ottanta del secolo scorso: una montagna di soldi (e di debiti) spesi per pagare una costosissima campagna elettorale (nel 2019 ci sono le europee); assistenzialismo, pensioni più generose, condono fiscale; quasi niente che guardi al futuro, che scommetta sullo sviluppo e sui giovani. Questo genere di film ci ha portato vicini alla bancarotta nel 1992. I costi li stiamo pagando ancora oggi.