Il decreto sta per essere convertito in legge, un’occasione per fare il punto sul diritto alla salute, al lavoro e alla proprietà nella grande fabbrica

Tra pochi giorni il decreto Ilva »sarà convertito in legge dal Senato. È arrivato dunque il momento di ricavare alcune lezioni. La prima riguarda il diritto di proprietà. Alcuni esponenti del Pdl e di Scelta Civica hanno bollato come esproprio proletario la decisione del governo di estendere il regime commissariale dai casi di dissesto economico a quelli di emergenza ambientale.
In effetti, la Costituzione garantisce il diritto di proprietà, ma non in assoluto. Non nella stessa misura del diritto alla vita, per esempio. Tanto che i costituenti hanno escluso la pena di morte dal codice penale.
Il diritto di proprietà ha già trovato altri limiti, accettati anche dai liberisti più radicali. In questo caso, pare equo che la decisione del governo sia preceduta da un contraddittorio con i legali rappresentanti dell’impresa. La Camera ha aggiunto questa condizione al testo originario. Bene. Si tratterà ora di fissare una procedura che assicuri nel tempo la salvaguardia dei tre diritti in questione – alla salute, al lavoro e alla proprietà – andando oltre la supervisione della magistratura sul presente e sul passato, destinata comunque a persistere.
Il caso Ilva dimostra come la mera rincorsa tra i provvedimenti cautelari e i tre gradi del giudizio rischi di intervenire troppo o troppo poco producendo effetti collaterali sull’attività produttiva di cui il giudice non porta nè potrebbe portare la responsabilità. D’altra parte, la tutela della salute e la gestione dell’economia sono materia politica prima che giudiziaria. Nel caso Ilva, aggiungo, il contraddittorio invocato dal decreto c’è stato nei fatti, senza ancora una procedura. Superata l’emergenza pugliese, meglio stare entro binari formalmente definiti.
IL RUOLO DEL COMMISSARIO
La seconda lezione riguarda la figura e i poteri del commissario. La sinistra radicale e il M5S hanno imputato al governo e alla maggioranza di aver scelto un manager in conflitto d’interessi avendo Enrico Bondi ricoperto la carica di amministratore delegato del gruppo Ilva prima del commissariamento. A tale proposito hanno richiesto l’estensione dei criteri di nomina dei commissari straordinari nel caso di dissesto economico.
I conflitti d’interesse sono sempre da prevenire o, comunque, da regolare, purché esistano. Bondi è stato nominato commissario straordinario in Parmalat, sebbene fosse stato chiamato in precedenza da Calisto Tanzi al vertice aziendale nell’estremo tentativo di evitare il peggio che lui e i suoi, non certo Bondi, avevano prodotto. In tutta evidenza, l’ingegner Bondi non era il ragionier Tonna. E in Parmalat il commissario Bondi non ha fatto sconti né ai Tanzi, né alle banche creditrici e profittatrici. Può dirsi lo stesso per il rapporto tra Bondi e i Riva, azionisti di maggioranza dell’Ilva? Credo di sì. E d’altra parte l’insolvenza è cosa diversa dall’insufficienza, magari grave, degli investimenti ambientali. Nel primo caso, la proprietà scompare, nel secondo è solo sospesa.
Ora, Bondi non sarà un padreterno. E tuttavia, in questo momento, promette di risanare l’Ilva con i soldi dell’Ilva. A tal fine deve poter tagliare tutti i fili che legano l’Ilva al gruppo Riva e, al tempo stesso, deve poter drenare tutte le risorse generate dall’ azienda per destinarle al risanamento ambientale senza compromettere l’equilibrio dei conti, base di ogni sviluppo futuro.
E curioso il disinteresse dei parlamentari della sinistra radicale e del M5S sul fronte dei rapporti con la proprietà, benché la maggioranza avesse propugnato al Senato il diritto del commissario di sciogliere i contratti con parti correlate (e il governo si sia impegnato a recepire il punto in un prossimo decreto).
Tanta ferrigna retorica contro Bondi, tanta benevolenza de facto verso i Riva. Mah. E poi deve far riflettere le difficoltà che la Regione Puglia frappone all’uso delle discariche interne all’Ilva che, un bel giorno, costringeranno l’azienda a far uso di altre discariche private del circondario. Sono più sicure di quelle gestite dai rappresentanti del governo? Di nuovo, mah.
LA MIOPIA DI SEL E M5S
I pentastellati puntano allo smantellamento dell’Ilva o quanto meno al suo drastico ridimensionamento. Non si curano del gigantesco ricorso alla spesa pubblica che ne deriverebbe per tamponare l’esplosione della disoccupazione e per pagare il costo miliardario di una bonifica infinita, a quel punto non più concretamente attribuibile alla vecchia proprietà. E nemmeno sembrano preoccuparsi del fatto che, se non gestita da una grande tecnostruttura industriale, la bonifica infinita verrebbe affidata fatalmente a poteri locali esposti più di altri alle camarille corporative piene di nostalgia dei tempi in cui l’Ilva si chiamava Italsider e loro la mungevano serenamente. Gli enti locali avevano 50 milioni da spendere per il rione Tamburi e, avverte L’Espresso, li hanno usati per altro.
Certo gli esponenti di Sel non si professano antí industrialísti. E tuttavia, volendo rincorrere l’estremismo verdeggiante, alzano ogni giorno l’asticella. Se fosse interamente accolto il loro punto di vista, il collasso dei conti industriali diventerebbe un rischio reale. Non si accorgono, gli esponenti di Sel, che in tal modo, pur dicendosi neo comunisti, finiscono con il giocare dalla stessa parte della tecnofinanza che ha ispirato l’Europa di Maastricht e le sue solitarie politiche ecologiche. Quelle politiche che, proprio perché solitarie, favoriscono la delocalizzazione delle produzioni in altre aree più arretrate e permissive con il duplice effetto di aumentare la disoccupazione nel Vecchio Continente e pure l’inquinamento del pianeta.
E qui siamo alla terza lezione: l’Europa non può e non deve tornare indietro sull’ambiente, ma attraverso le politiche industriali e commerciali può e deve evitare effetti boomerang, i cui unici beneficiari sarebbero i finanzieri e i mercanti capaci di governare i flussi del denaro e delle merci, incuranti delle produzioni legate ai territori.


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