Governance e progetto industriale necessariamente intrecciati
Temo che le linee guida per la riforma della Rai,appena licenziate da palazzo Chigi, restino al di sotto del minimo sindacale. Limitarsi a modificare il governo aziendale (invece del direttore generale un amministratore delegato potente nominato dall’esecutivo) e alla vecchia idea della specializzazione di Rai Uno (generalista), Rai Due (sperimentale) e Rai Tre (culturale) delude chi vede nella riforma della Rai la leva per modernizzare l’industria dei media, aumentandone pluralismo, e fa sorgere il dubbio che tali linee abbiano il solo scopo di trasferire al Governo la fonte del potere, in barba all’opzione parlamentarista della Corte Costituzionale, puntualmente ricordata sul «Sole 24 Ore» da Maurizio Gasparri.
La Rai ha certamente bisogno di essere ripensata, ma in modo ordinato e radicale: subordinando le scelte di governance alla ridefinizione del servizio pubblico e, aggiungo, alla conseguente privatizzazione di una parte della Rai nel quadro più generale di una riforma della legge Gasparri per intercettare i nuovi mercati rilevanti (la pubblicità on line, le infrastrutture di rete) e aggiornare i divieti antitrust superati.
 La nozione di servizio pubblico, giova ricordarlo, assume rilievo solo negli anni ‘8o in giustapposizione alla neonata tv commerciale in fiammeggiante espansione. Prima, con il monopolio di Stato, il servizio pubblico coincideva tout court con la tv. Una situazione ben diversa da quella inglese, dove Bbc e Itv si fanno concorrenza fin dal 1955. In Italia, l’unica differenza misurabile tra tv pubblica e tv commerciale è data dalle fonti di finanziamento. I palinsesti sono perfettamente sovrapponibili, con l’eccezione delle news regionali auto prodotte dalla Rai a costi insensati. ll gruppo Mediaset vive di pubblicità e,in minima parte, degli abbonamenti di Mediaset Premium. ll gruppo Rai vive di una ‘tassa’, il canone, e di pubblicità, ma in misura ridotta per legge rispetto alla tv commerciale. A onor del vero, tale riduzione fu pretesa dagli editori in anni remoti a compensazione del blocco del prezzo amministrato dei quotidiani. Ma poi si risolse in un vantaggio strategico per la tv commerciale.
Oggi il servizio pubblico non si giustifica riproponendo i «Promessi sposi» o il maestro Manzi versione 2.0. Quei programmi, resi mitici dal tempo più che dalla loro qualità, funzionavano in un’altra Italia. Nell’epoca digitale, l’analfabetismo di ritorno degli italiani e l’integrazione degli immigrati (che imparano la lingua anche vedendo Canale 5) esigono altri rimedi. Il servizio pubblico oggi si giustifica se è in grado di
promuovere l’audiovisivo nazionale, sia come produttore sia come acquirente di format di intrattenimento, di spettacoli, di film e di fiction, e di offrire un’informazione indipendente dalla finanza, dall’industria, dal governo e dai partiti. Il risultato economico conta, ma in funzione della mission e non di per sè. Per migliorare i conti, la Rai potrebbe anche aumentare le repliche, mache senso avrebbe?
Nell’audiovisivo, l’Italia ha grandi potenzìalità. Senza tornare alla Cinecittà di «Ben Hur», ricordo che Sky fa dell’Italia il centro della sua fiction in Europa. La Rai non si può fermare alla vita dì papa Montini quando Sky lancia i Borgia con Jeremy Irons. Ma per muoversi l’emittente pubblica deve rompere la tenaglia del pauperismo declamato e delle elargizioni clientelari.
Nell’informazione, il vincolo della lingua e il provincialismo della sua classe dirigente impediscono alll’Italia di avere qualcosa di paragonabile alla Cnn o al World Service della Bbc, che iniziò nel 1932 come Empire Service. E tuttavia il self journalìsm che entra nelle terre dell’Isis ed è rilanciato da vice.com non è precluso ai capaci e meritevoli…. Volando piú basso, l’indipendenza dell’informazione parte, come ricordava Luigi Einaudi, da proprietà editoriali libere da altri interessi; politici ed economici.
 Riunificare le redazioni come vogliono Gubitosi e Renzi va bene. La tripartizione degli anni’ 70, che portò anche grandi innovazioni, si ispirava a un pluralismo di famiglìe ideologiche degli italiani (cattolici, socialisti e comunisti) ormai estinte. Ma se l’informazione avrà una fabbrica unica, che senso potrà mai conservare la proprietà dei tre canali grandi che si articolano assieme a un’infinità di altri minori, anche sperimentali, anche culturali, sui 4 mux in concessione alla Rai?
 É qui che governane e progetto industriale si intrecciano. Alla Rai si addice un regime dualistico, con un consiglio di sorveglianza composto da persone nominate dal presidente della Repubblica su designazione dello stesso presidente, del Parlamento (due), del Governo, della Corte dei conti, della Banca d’Italia e dei dipendenti.
Un consiglio che elegge il proprio presidente e nomina il gerente e un comitato di gestione dell’azienda. E che dà le linee guida ai gestori, ne stabilisce le retribuzioni e ne controlla l’operato, in particolare approvando il bilancìo.
Al Paese non serve più un pachiderma romano al quale infliggere periodiche punizioni aizzando la folla, straparlando di canone, ma due animali nuovi e agili, capaci entrambi di stare, in modi diversi, sul mercato.
La prima azione della nuova Rai dovrebbe consistere nella costituzione di una società alla quale conferire almeno un muxe una grande rete generalista con le relative risorse umane e patrimoniali da quotare tutto in Borsa come public company, una volta dimostrato sul campo il proprio valore. L’Italia avrebbe un nuovo editore, finanziato dalla pubblicità con gli stessi vincoli di Mediaset e de Ia7. Mentre la Rai servizio pubblico potrebbe vivere di canone e di una quoterella variabile di spot ovvero di un canone anch’esso leggermente variabile, comunque in ragione degli ascolti e in funzione della retribuzione premiale dei dipendenti, giusto per evitare esiti alla Pbs americana.
 Quanta concorrenza e quanto pluralismo avremmo in più nell’informazione e nell’intrattenimento! Una public company, e cioè un editore puro moderno nel1’Italia vecchia e impura degli interessi corporati, con un gruppo dirigente tale da essere apprezzato dal mercato e dal pubblico e con una governance ricalcata sul modello Reuters che assegna una golden share a un comitato di persone eccellenti per sbarrare la strada agli scalatori (funzionò con Maxwell) ma non alle proposte intelligenti (la fusione con Thomson Financial venne approvata)!
 In passato, il ‘partito Rai’, formato dalle burocrazie di viale Mazzini, dai partiti, da Mediaset e dagli editori, berlusconiani e non, osteggiò una tale prospettiva che avrebbe portato un segno di contraddizione nel loro mondo più limaccioso che litigioso. Nel dicembre 2004, Romano Prodi fece pubblica promessa di provarci.Ma ne non ebbe la forza. Il Rottamatore vorrà fare della Rai il banco di prova del suo rapporto coni ‘poteri forti’o gli basterà di aver ‘ammazzato’LettaeD’Alema per diventare lui stesso il ‘potere forte’, difeso, come la Dc ante 1974, dalla’sua’ Rai?

Ne Parlano