Signora Presidente, gentili colleghi, sento l’esigenza di rimettere la palla al centro. Una discussione avvitata su se stessa, infatti, ha avuto sia l’effetto di mutilare la portata del disegno di legge, cancellando dal dibattito il titolo relativo alle convivenze, sia quello di far apparire il tema delle adozioni come costitutivo della disciplina delle unioni civili, così inducendo l’idea che chi si oppone o ha dubbi sull’articolo 5 non voglia riconoscere le unioni stesse.
Procedo con ordine. È merito del PD, di tutto il PD, l’aver portato al voto in Aula questa legge, che, in linea con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, regola le convivenze, completando il quadro ordinamentale di quello che io amo chiamare il diritto dell’affettività. E andando contro corrente, sottolineo che la regolamentazione delle convivenze civili non è meno importante, non solo per l’estensione del fenomeno, di quella delle unioni civili. La disciplina delle convivenze, infatti, offre tutela non solo alle convivenze more uxorio, ma anche alle convivenze di solidarietà, che spesso sono la conseguenza dell’abbandono delle persone da parte dei familiari e della fuga di questi dai loro doveri etici e giuridici. E ancora: la disciplina delle convivenze riconosce, giusta il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, il diritto delle persone di scegliere il grado di vincolatività giuridica da dare alle proprie relazioni affettive. lo non credo che tutto questo incentivi alla deresponsabilizzazione, ma credo al contrario che aiuti ad una maggiore consapevolezza, oltretutto tutelando la parte debole.
È parimenti merito del PD, di tutto il PD, aver portato la disciplina delle unioni civili al voto in quest’Aula; una disciplina che offre alle coppie omosessuali la possibilità di formalizzare il loro legame e di dare riconoscimento e tutela legale allo stesso. In questo contesto (e non in altri artificiosamente costruiti) si inserisce, quanto alle unioni civili, il tema dell’adozione del figlio del partner. È di tutta evidenza – ribadisco – che discutere questo profilo non significa mettere in discussione il riconoscimento delle unioni medesime, che dell’adozione, al contrario, sono l’ineludibile presupposto. Peraltro, è altrettanto evidente che porre il problema di una disciplina dell’adozione che, in coerenza con la disciplina della legge 40, si preoccupi di rendere più effettivo il divieto della maternità surrogata, è iniziativa che, lungi dall’essere oppositiva, si pone il problema di rendere più adeguata la regolamentazione legale delle adozioni medesime.
Muoversi in questo orizzonte, infatti, significa non negarsi il problema della necessità di una normativa non solo e non tanto coerente con il quadro ordinamentale, che prevede il reato della maternità surrogata, ma soprattutto attenta al bilanciamento tra il diritto di essere genitori e quello di essere figli, entrambi riconducibili ai diritti inviolabili dell’uomo, che la Repubblica deve riconoscere e tutelare, ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione. Tale normativa va declinata alla luce del secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, notoriamente norma fondante della nostra Carta, frutto del superamento della visione illuministica (limitata alla declaratoria legale dei diritti) e che si fonda sul riconoscimento dell’assoluta centralità della persona umana, di ciascuna e di tutte, ponendo così la questione del limite del diritto di ciascuno in rapporto al diritto dell’altro. Questo rende incostituzionale ogni visione assoluta di un diritto, che inevitabilmente sarebbe inconciliabile con il principio fondamentale del bilanciamento dei e tra i diritti, che impedisce che qualcuno, in nome del suo diritto, prevarichi quello di altri. È la città di tutti per tutti: quella degli inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale e del pieno sviluppo della personalità umana.
In questo quadro, colloco la mia riflessione sull’articolo 5, ossia sulla stepchild adoption. I corni del problema sono riassumibili nel momento seguente. Da un lato, mi affido alle parole di chi ha sostenuto che: «Occorre assicurare che chi si prenda cura del bambino adottato abbia la giusta motivazione e abbia anche i mezzi e le capacità per assicurarne una crescita serena. Chi è in tale condizione? Certamente anzitutto una famiglia composta da un uomo e una donna che abbiano saggezza e maturità e che possano assicurare una serie di relazioni interfamiliari (…). In mancanza di ciò è chiaro che anche altre persone, al limite anche i single, potrebbero dare di fatto alcune garanzie essenziali. Non mi chiuderei perciò a una sola possibilità, ma lascerei ai responsabili di vedere quale è la migliore soluzione di fatto, qui e adesso, per questo bambino o bambina. Lo scopo è di assicurare il massimo di condizioni favorevoli concretamente possibili. Perciò, quando è data la possibilità di scegliere, occorre scegliere il meglio».
Dall’altro, rinvio alla seguente riflessione: «È un’epoca in cui ci sentiamo sottoposti a varie minacce, il discrimine tra il naturale e l’artificiale si mescola, non ci sono solo “magnifiche sorti e progressive”. E’ una deriva per cui la società non esiste ma esistono solo gii individui. Come si fa a dire, per esempio, che avere un figlio è un diritto? Come si può pensare di declinare tutto nella chiave della libertà individuale, come se ciò che accade prescindesse dal modo in cui si compongono le volontà e le coscienze dei gruppi umani?».
Sono le riflessioni di Carlo Maria Martini e di Giuseppe Vacca: le riflessioni di due personalità con storie e culture profondamente diverse, ma mosse con evidenza da quell’onestà intellettuale, che non impedisce ad un principe della Chiesa (già nel 2008) di riconoscere che l’adozione non può essere preclusa anche ad «altre persone, al limite anche i single», purché tutto si muova con attenzione all’interesse del bambino per assicurargli «il massimo di condizioni favorevoli», e ad un filosofo marxista di dire che avere un figlio non è un diritto e che non tutto si può declinare nella libertà individuale e nei diritti individuali atomisticamente considerati.
I termini di una discussione realmente laica e costituzionalmente orientata sono, a mio parere, esattamente questi. Su queste basi, come dimostrano anche emendamenti a mia prima firma, riconosco che il partner dell’unione civile possa adottare il figlio dell’altro partner, non per un suo diritto alla genitorialità (che non ha neanche il coniuge), ma se ed in quanto ciò sia nell’interesse esclusivo del figlio.
E aggiungo che, nel contesto di una riforma della legge sulle adozioni, sono convinto che debba essere disciplinata, sottraendola alle possibili oscillazioni della giurisprudenza, anche la legittimazione dei componenti delle unioni civili all’adozione tout court, purché nell’interesse esclusivo del bambino. Come ha ammonito il cardinale Martini, infatti, l’orfanotrofio o la casa famiglia non sono, sempre e comunque, la soluzione migliore in assenza di una coppia eterosessuale di genitori adottivi. Al contrario, l’esperienza concreta porta oggettivamente a constatare la superiore qualità di rapporti personalizzati e stretti e la decisività di questi ultimi per la crescita dei bambini ove manchi la condizione naturale.
Aggiungo anche che, ferme restando tutte le verifiche previste dalla legge sulle adozioni, ho presentato più emendamenti che riconoscono l’adottabilità da parte del partner per i figli già nati. Per il futuro, però, non si può prescindere dalla effettività del divieto della maternità surrogata. Lo dicono in tanti, con sensibilità diverse, con storie diverse, avendo attenzione tanto alla condizione della donna, che affitta l’utero, quanto al bambino così concepito. E sappiamo che, purtroppo, il problema è universale, cioè etero e omo, con le deviazioni che giungono fin alla pretesa di essere madre e genitori senza nemmeno l’onere della gravidanza, fino alla possibilità della scelta a tavolino della madre e del padre biologici da parte dei genitori legali. Summa lex, summa iniuria.
Davvero vogliamo non aprirci laicamente all’evidenza della questione? Davvero vogliamo negarci l’oggettività del tema? Davvero non vogliamo aprirci al dubbio e ammettere che il problema della maternità surrogata vada affrontato in connessione con le stepchild adoption (sia chiaro, pure per le coppie eterosessuali)? Davvero vogliamo ostinarci a credere che una disciplina più analitica, che, riconosciuta l’adottabilità dei bambini già nati, garantisca, per il futuro, una maggiore effettività del divieto della maternità surrogata sia una cancellazione o, peggio, dell’articolo 5? Accettiamo la sfida del confronto, e non della contrapposizione pregiudiziale, e costruiamo in questa Aula la soluzione: è già scritta in molte riflessioni emerse in questa discussione generale e in tanti emendamenti a questo disegno di legge.
Mi auguro, davvero, che il Senato sappia essere protagonista e sappia realizzare una mediazione alta, nobilitando l’ultimo suo miglio di cammino. (Applausi dal Gruppo PD).