‘Voglio ricordare qui, oggi, Pietro Barcellona, andando oltre la definizione che ne danno le note biografiche. Pietro fu certamente docente universitario, componente del CSM e parlamentare e per molti – anche per molti di noi – basterebbero queste note biografiche se non a esaurire il suo profilo, certamente a descrivere la sua persona, ma non è così per Pietro Barcellona. Io l’ho incontrato a 18 anni: facoltà di Giurisprudenza, Catania, primo anno, corso di diritto privato. Appartengo a quella generazione di ragazzi e ragazze degli anni Settanta che avevano scelto di essere giuristi e che furono educati da Pietro Barcellona ad esserlo per le strade impervie del non arrendersi alla dogmatica e alla manualistica tradizionale, ma da lì partire – studiandole prima, però, profondamente – per capire come il diritto potesse dare altre risposte che non quelle già date e sedimentate, come potesse continuare a conservare la propria potenza, attraverso l’interpretazione, nell’essere utile al cambiamento e alla capacità di riequilibrare i rapporti economici e sociali e i rapporti di forza tra individui e gruppi, e per capire dunque come potesse essere utile per lo stesso cambiamento del Paese. Questa teoria lo vide protagonista e, con tutti i limiti che ha svelato, contribuì a cambiare la fisionomia e il ruolo dei giuristi italiani nella vita del Paese. Già in questo Pietro Barcellona svelò il suo non essere dogmatico: in questo mai accontentarsi e nell’educare a mai accontentarsi di ciò che è dato, di ciò che è facile, troppo facile, di ciò che sembra non discutibile, perché complessa è la realtà e mutevoli sono i rapporti. Per Pietro e per noi diventò mai esausta la ricerca di risposta. Questo tratto lo accompagnò e lo definì, come giurista e come politico, ma potrei dire anche nelle altre forme nelle quali esercitò la sua opera di intellettuale. Qualunque fosse la questione di cui si ragionava, ciò che colpiva in lui era il partire dall’averla studiata assai profondamente, per poi riuscire a ripartire, cercando la verità, la risposta – non voglio usare parole improprie – con un punto di vista che niente doveva a tutto ciò che era già stato detto. C’era in questo una sorta di innocenza, un’assenza di stigma, un’assenza di crisma, che spiazzava, disorientava e irritava. Questa era la sua forza e la sua debolezza ed era anche la conferma che qualunque fosse stato il campo della sua ricerca – il diritto, la filosofia, l’antropologia o la teologia – Pietro Barcellona si confermava sempre come un grande intellettuale e certo non un intellettuale «puro» – un aggettivo che spesso si aggiunge a questa parola – perché tradirei il senso ultimo di quella ricerca, che non era mai solitaria e soprattutto non era mai avara. Segnare un progresso nella conoscenza, ma assai di più nella realtà e ancora di più nelle relazioni umane in termini di poteri, di diritti, di opportunità, per migliorarle progressivamente: questo era il fine. La sua speculazione incontrò Dio. E ha detto poco chi ha parlato di una sua conversione, perché senza alcuna paura Pietro Barcellona – e io mi chiedo a chi di noi basterebbe questo coraggio – disse che faceva i conti con l’ineludibile, nella vita di ciascuna persona, questione di Dio. E parlava di sé, ma leggeva il mondo e il peso che la religione ha nella sua storia e i mutamenti che questo ha indotto e ogni giorno induce nella vita di moltitudini umane e nella politica. Io lo voglio qui ringraziare. Ho mandato – direbbe lui – di ringraziarlo solo a nome di noi tutti ragazzi e ragazze degli anni ’70. A ciascuno di noi, chi più chi meno, a seconda del coraggio di ciascuno di noi, ha insegnato a dubitare e a cercare, a non arrendersi alla banalità, a ciò che è scontato, al pressappochismo, all’ignoranza, alla mistificazione. E io vorrei, per le mie figlie, un maestro come lui’.

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