Il Cavaliere non è ineleggibile ma incompatibile. Se vuole restare in Parlamento deve cedere le azioni alla base del suo conflitto d’interessi
Berlusconi ineleggibile? Se la giunta delle elezioni del Senato dichiarasse tale il leader del Pdl in base a una nuova interpretazione dell’articolo 10 della legge 361 del 1957, e se il Senato ratificasse la decisione, grande sarebbe il giubilo in quella parte dell’opinione pubblica che considera Silvio Berlusconi il Caimano. Finalmente, si direbbe, giustizia è fatta. Ma siamo sicuri che sarebbe giustizia? Berlusconi è l’uomo delle leggi ad personam. Ma, pensando al domani, avrebbe senso ripagarlo con la stessa moneta? E siamo sicuri che la reinterpretazione della legge 361 sarebbe una soluzione solida sul piano politico? La mia risposta – la risposta di un giornalista prestato al Senato che non ha mai risparmiato nulla né a Silvio né a Mediaset – è negativa a entrambi i quesiti. Non di meno il toro va preso per le corna.
Cacciare dal Parlamento il leader del centro-destra con un colpo di maggioranza non eliminerebbe questa persona dalla politica italiana. Ne farebbe anzi un martire per quella parte dell’opinione pubblica che non gli è ostile a prescindere. Messo con le spalle al muro, l’animale ferito reagirebbe senza più freni e farebbe cadere il governo Letta. Poco male, direbbero gli amici di Sei. Ma sarebbe credibile a quel punto una coalizione Pd-Sel-M5S? Temo di no. Una simile strada si è rivelata non percorribile nelle scorse settimane. Non lo diventerebbe ora, sulla mera base dell’opposizione a Berlusconi. E allora il Quirinale potrebbe sentirsi costretto a sciogliere le camere. Morale: il «Caimano» avrebbe su un piatto d’argento l’occasione della rivincita e, con una possibile maggioranza di centrodestra, di un trionfale rientro in quel Senato da dove gli apprendisti stregoni l’avevano allontanato.
Ma dichiarare Berlusconi ineleggibile sulla base della norma di 56 anni fa non sarebbe nemmeno giusto. In democrazia la forma conta. Quella norma definisce ineleggibili coloro i quali abbiano significativi rapporti economici con le pubbliche amministrazioni in proprio o in quanto esponenti di imprese titolari di quei rapporti. Resta avvolto nella nebbia, invece, il caso di chi sia azionista di rilievo di imprese che ricadano nella fattispecie appena richiamata. Alcuni giuristi ritengono che l’espressione «in proprio» implichi il possesso di un pacchetto azionario di controllo, altri circoscrivono l’espressione alla proprietà totale dell’impresa ovvero alla titolarità diretta, personale, di una concessione pubblica o di altro rapporto assimilabile con le pubbliche amministrazioni. I pareri sono contrastanti. Data la norma, non c’è una verità rivelata e assoluta. E tuttavia il problema esiste. Come ha appena rilevato Ainis sul «Corriere della Sera», oggi capita che Fedele Confalonieri in quanto esponente di Mediaset, titolare del diritto d’uso di frequenze radio, un bene pubblico, non sia eleggibile in Parlamento, mentre eleggibile è stato giudicato fin qui il suo azionista di riferimento, Silvio Berlusconi. Come risolvere questo problema?
Va riscritta la norma. La strada maestra deve tener conto dei diritti di elettorato passivo e di proprietà, entrambi garantiti dalla Costituzione, e della più generale esigenza dell’esercizio imparziale del mandato parlamentare, dove per imparziale si intende scevro da conflitti d’interesse.
L’Italia del 1957 non aveva azionisti di grandi società quotate in Borsa che fossero titolari di concessioni pubbliche o che operassero in settori sottoposti a regolazione specifica. Questo tipo di società si diffonde negli anni Novanta in seguito alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni. Bisogna dunque estendere il campo di ap-plicazione della norma e, al tempo stesso, approfondirlo aggiungendo esplicitamente la figura dell’azionista di controllo di diritto o di fatto o ancora la figura dell’azionista che eserciti nelle forme più varie il controllo congiunto con altri soci. A tal proposito appare più sostenibile, dal punto di vista costituzionale, parlare di incompatibilità anziché di ineleggibilità.
Da dirigenti e amministratori ci si può dimettere in un amen e restare eleggibili una volta eletti. Diverso è il caso dell’azionista di controllo. Se vuole restare in Parlamento, deve vendere. Le gestioni fiduciarie comunque mascherate, se possono in teoria precludere all’eletto il potere di influenzare l’impresa, certo non gli impediscono di operare in Parlamento o, peggio, al governo per difendere e promuovere gli interessi dell’impresa medesima. Dunque, deve vendere. Ma il rispetto dei diritti costituzionali dovrebbe offrire al soggetto la scelta tra restare in Parlamento, vendendo il pacchetto azionario, o conservare il pacchetto, rinunciando al mandato parlamentare. E un elementare senso dell’equilibrio dovrebbe garantire all’eletto, che voglia esercitare il mandato, un tempo congruo per cedere in modo trasparente, e dunque a soggetti certamente terzi, la partecipazione che origina il conflitto d’interessi. Un tempo congruo, nel quale il parlamentare si astiene da qualsiasi forma di partecipazione all’attività dell’impresa, ma anche un tempo con scadenza prestabilita e perentoria, oltre la quale, nel caso di vendita mancata e in costanza di legislatura, scarterebbe la decadenza automatica dal seggio.
 
P.S. Nel caso di Berlusconi osserverei che, avendo lui 77 anni e versando Mediaset in serie difficoltà come, del resto, tutti gli altri media tradizionali, vendere adesso sarebbe meglio che vendere tra cinque anni.

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