Matteo Renzi piace la mossa del cavallo. Una mossa tanto rischiosa e perciò coraggiosa, quanto indispensabile per venire fuori dalle situazioni bloc- cate, dalla contrapposizione paralizzante tra ‘torri’, tra opposte ragioni chiuse e fortificate, condannate a scontrarsi senza vie d`uscita. La mossa del cavallo piaceva tanto ad un grande vecchio della sinistra italiana, Vittorio Foa.
 Il quale non la considerava un espediente tattico, ma il frutto di un`intelligenza capace di liberarsi dalla coazione a ripetere, l`espressione creativa di una mente che si vuole libera di guardare oltre gli schemi, capace di atteggiamento critico verso se stessa, non meno che verso gli altri.
Renzi ha fatto la sua mossa del cavallo, quando ha chiamato Silvio Berlusconi per cercare, anche con lui, un accordo che sbloccasse lo stallo sulle riforme. Non lo ha rilegittimato, né tanto meno amnistiato. Lo ha riportato dov`era, prima che il Cavaliere decidesse di abbandonare il tavolo delle riforme, come rappresaglia per il voto sulla decadenza. È Berlusconi dunque, non il Pd, che è dovuto tornare sui suoi passi. D`altra parte, il giovane leader dei democratici sapeva che solo recuperando Forza Italia al tavolo che deve definire le nuove regole del gioco democratico, avrebbe potuto tenere insieme tutti e tre gli obiettivi del suo ambizioso disegno politico e istituzionale: definire una nuova legge elettorale di tipo maggioritario, senza subire un eccessivo condizionamento da parte dei partiti più piccoli; riprendere la strada della riforma della Costituzione, almeno per modificare il senato e per rivedere il Titolo V, abolendo le province ordinarie e rivisitando la ripartizione delle competenze tra stato, regioni, enti locali; conquistare un altro anno di tempo per consentire al governo di affrontare con un piglio nuovo i problemi del paese, di produrre risultati e di mettere il Pd in una posizione forte nel rapporto con l`elettorato, fin dalle prossime elezioni europee.
Nessuno di questi tre obiettivi era raggiungibile con le sole forze dell`attuale maggioranza: senza la mossa del cavallo, il rischio era dunque per il Pd quello di trovarsi dinanzi all`alternativa tragica tra gettare la spugna e correre rassegnati verso le elezioni, o invece guadagnare tempo, ma senza sapere come riempirlo di fatti. Tutti e tre questi obiettivi sono invece ora ridiventati possibili. E infatti si è subito cominciato a vedere il primo tassello, quello di una buona riforma elettorale, come è giusto definire il testo presentato alla camera mercoledì scorso.
È vero che il diavolo si annida nei dettagli ed è giusto scrutarli con molta cura, questi dettagli, tanto più quando si parla di regole delicate come quelle elettorali. Sarebbe tuttavia altrettanto sbagliato perdere di vista l`insieme, e ancora più sbagliato sacrificare un insieme più che positivo, vagheggiato per anni, in nome del consueto irrigidimento su questo o quel dettaglio. Dunque, ben vengano dubbi, critiche e proposte emendative: purché non si dimentichi che l`ottimo è il peggior nemico del bene e che di riforme perfette sono pieni gli archivi di camera e senato.
 L`aspetto sul quale si sono appuntate le critiche più aspre nei riguardi della proposta di riforma elettorale avanzata da Pd, FI e Ncd, è la mancata reintroduzione delle preferenze, in favore della lista corta bloccata (3-6 candidati). Le critiche, a mio modo di vedere, non appaiono fondate. Certamente, al contrario di quanto sostenuto ad esempio da Gianni Cuperlo, non mi pare lo siano dal punto di vista della legittimità costituzionale. Il testo delle motivazioni della sentenza della Corte su questo è chiarissimo. La Corte distingue infatti nettamente (li definisce sistemi tra loro ‘non comparabili’), tra la lista bloccata modello ‘Porcellurn’, che ‘impone al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori’, e modelli invece ‘caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l`effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l`effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)’.
Dunque, dal punto di vista della Corte, la lista corta bloccata e i collegi uninominali sono modalità sostanzialmente equivalenti sul piano della qualità democratica e come tali entrambi assolutamente legittimi. Del resto, difficilmente la Corte avrebbe potuto esprimersi in maniera diversa. Basti considerare che in nessun grande paese europeo si eleggono i deputati con le preferenze: in Inghilterra e in Francia c`è il collegio uninominale, in Spagna la lista corta bloccata, mentre il Bundestag tedesco è eletto per metà con i collegi uninominali e per metà con la lista bloccata. Solo in Grecia si vota con le preferenze.
Infondata sul piano della legittimità costituzionale, la critica è invece assolutamente pertinente sul piano del rapporto tra politica e opinione pubblica. Pertinente non significa tuttavia convincente. Non c`è infatti nessuna evidenza (semmai numerosi indizi contrari, basti pensare ai consigli regionali) che le preferenze favoriscano la qualità (morale, professionale, democratica) della rappresentanza. Ma soprattutto: la sovrapposizione di una competizione nelle liste a quella tra le liste è un potente fattore di disgregazione dei già friabili partiti italiani. E proprio la fragilità dei partiti è una delle cause principali della crisi della politica democratica in Italia.
Basti pensare, senza con questo voler offendere nessuno, che tre dei quattro partiti che oggi sostengono il governo Letta (cioè tutti tranne il Pd) non erano presenti col loro nome e simbolo alle elezioni politiche di meno di un anno fa.
Bisogna essere consapevoli che se non si inverte questa tendenza alla liquefazione delle forze politiche non sarà possibile alcuna riforma della democrazia parlamentare e non resterà altra via percorribile che quella del presidenzialismo, per mettere le istituzioni al riparo dalla crisi dei partiti. Dunque ben venga una legge che favorisca le aggregazioni e scoraggi la frammentazione dei e nei partiti: una legge che, nell`impossibilità di reintrodurre il collegio uninominale (salvo che, fortunatamente, in Trentino Alto-Adige e Valle d`Aosta) per la contrarietà di quasi tutti gli altri partiti, si orienti verso il collegio plurinominale, la lista corta bloccata, che è comunque il second best. Naturalmente, questa scelta sarà tanto più sostenibile, come è stato da più parti osservato, se potrà accompagnarsi ad una legge sui partiti, sul loro finanziamento, sulla loro vita democratica, sulla loro vitale e non delegabile funzione di selezione dei candidati. Chissà che non possa essere proprio questa la prossima mossa del cavallo di Matteo Renzi.

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