‘Così ho raccontato il Paese’
APPARENTEMENTE FRAGILE MA FORTISSIMO, ATTIVISSIMO E SEMPRE ATTENTO A CIÒ CHE ACCADE NEL MONDO, Sergio Zavoli, il grande maestro del giornalismo italiano, senatore del Pd, compie 90 anni. Domani li festeggerà nella «sua» Rimini, della quale è diventato cittadino onorario, con Ettore Scola, Walter Veltroni e altri rappresentanti del mondo della cultura e della politica. E tanti amici.
Secondo lei qual è stato il percorso politico dell`informazione nella tv pubblica? E quanto è stato ed è condizionato?
«L`informazione, ma è in causa tutta la comunicazione, ha nel servizio pubblico affidato alla Rai il compito statutario di promuovere e difendere la crescita culturale e civile del Paese. Venivamo da lontano, dal potere pressoché unico della Dc; poi nacquero i governi centristi, quindi seguirà il centro-sinistra, cui si accompagnerà un incremento del pluralismo che il termine ‘lottizzazione’, pur innovando sensibilmente rispetto al primitivo latifondo democristiano, darà inizio a una diversificazione pur sempre fondata sulla prevalenza di un potere Dc-Psi al quale si affiancherà, con la Terza Rete, una più esplicita partecipazione del Pci. Ciò obbedì a principi più avanzati, resi ormai imprescindibili dai lasciti di una riforma – quella del `76 che confermava la necessità di un pluralismo finalmente ‘reale’. Si affacciarono nuove professionalità, ma anche nuovi privilegi, quando una bizzarra sociologia aziendale concepì l`idea di affidare le testate radio televisive, rispettivamente, a un direttore ‘politicamente orientato’, intorno al quale sarebbe stata non solo legittima, ma opportuna, la costruzione di redazioni ciascuna di un segno omogeneo, suo proprio. Ricordo che al debutto disponevo d`un corpo giornalistico di fede soprattutto socialista, e ci fu un malcelato sconcerto quando dichiarai che per far posto al pluralismo non si doveva essere la versione elettronica dell`Avanti, del Popolo e, figuriamoci, de l`Unità! Alla ‘zebratura’ mancava, ricordo, un liberale e andai a cercarmelo in Viale Mazzini. Si chiamava Aldo Bello, una specie di panda che l`Azienda teneva in un piccolo ufficio disadorno. Bello si rivelerà uno dei nostri inviati migliori, cominciando dai servizi sul massacro di via Fani e il rapimento di Moro». Cosa accadde negli anni della sua presidenza Rai?
 «Con la complicità del direttore generale, Willy De Luca, dedicai le prime sedute del Consiglio al progetto di ‘spalmare’, si direbbe oggi, quella curiosa interpretazione democratica della diversità: il ‘pluralismo verticale’. La somma più radicale e palese di tante faziosità venne sgominata da una veloce manovra che si chiamò del ‘riassetto’. Con Biagio Agnes – succeduto a De Luca, colpito da un improvviso malore che lo stroncò durante un`audizione della Vigilanza parlamentare – in un clima che accrediterà i primi successi con l`arrivo, nella Terza Rete, di una coloritura comunista, a sua volta ‘lottizzata’, anche la Rai si apprestò a vivere le future temperie del Paese. Il servizio pubblico, quindi la Rai, non sarà più lo stesso».
Gia allora, per affrontare la nascita della tv privata, si parlava di vendere qualche «pezzo della Rai»?
 «Si dovette spiegare ai più temerari che la concorrenza avrebbe giovato anche a noi, purché competere volesse dire distinguersi, non appiattirsi sul modello altrui. Fu una occasione mancata».
Qual é la cosa che ricorda con più intensità del suo lavoro? Quale personaggio, intervistato tra i più grandi, l`ha più colpita?
«Stento a dire qual è quella che aveva senso in se stessa. Non posso, per esempio, dimenticare Schweitzer, Paolo VI, Bordiga, Fellini, Von Braun, ma il ricordo più radicato risale a quelle che insorgevano da una urgenza sociale, una temperie collettiva, un interesse, ma anche una curiosità, comuni. La Notte della Repubblica consentì la narrazione documentale di un evento che in Occidente assunse le forme più tragiche di una ‘rivoluzione senza popolo’».
Rispetto al passato, considerate le sue bellissime inchieste, pensa che ci sia spazio e capacità, adesso, di realizzare lavori così approfonditi?
«Gli spazi, per dar vita a un ‘valore’ sistematico, devono corrispondere a una politica editoriale che ne faccia tutt`uno con il palinsesto. Quando, per capirci, si facevano le grandi inchieste – di Zatterin, di Sabel, di Soldati – il servizio pubblico interpretava un canone statutario che tra le sue regole implicava un`attenzione particolare alla realtà sociale, civile, culturale del Paese. Quando toccò anche a me di misurarmi con un`informazione, per dir così, di ‘genere’, non era ancora entrata a far parte di una specifica e sistematica struttura comunicativa, ma non incontrai alcuna difficoltà a realizzare inchieste che presero il nome di ‘Viaggi’: per esempio, nella storia, con Nascita di una dittatura; nella Legge, con la giustizia; nell`Educazione, con la scuola; nella fede, con Credere, non credere, nell`Unità nazionale, con II Sud; nella Spiritualità, con Clausura. Fino a quello dentro il terrorismo, che fu un ‘viaggio’ di cinquanta ore televisive, il più complesso, e per tanti versi emozionante, del mio intero lavoro. Erano, mi preme dirlo, programmi che il palinsesto non riservava agli insonni, ai disturbati nel pensiero, ai medici di guardia, ai secondini. Credere non credere andò in onda in prima serata, su Rai 1, senza pubblicità, neanche fossi Fellini! Fu un gran segnale, il consenso del pubblico arrivò da ogni parte. Credenti e non credenti capirono quella scelta laica e civile del servizio pubblico, rispettosa delle diverse opinioni o fedi che fossero».
Il direttore generale Gubitosi ha detto che vuole aumentare la qualità del prodotto Rai. Ci crede?
 «La lezione di Tv7 ha un`origine indimenticata. La scelgo come esempio di una tv, quella diretta da Bernabei, non tutta ovviamente d`oro colato, che rimane una modalità del servizio pubblico cui sarebbe ragionevole ricondursi; fatti i conti, naturalmente, con la politica e i partiti, il Paese e lo Stato, la moralità e il civismo, la cultura e l`etica, la modernità e la comunicazione di quegli anni. Gubitosi, concertando ruoli e propensioni con la presidente Tarantola, sta affrontando un`operazione non solo restitutiva, ma anche innovatrice, rivolta ai palinsesti di un nuovo servizio pubblico. Ha coraggio, politicamente. Ragionevolmente, rischia in proprio. Meriterebbe di farcela».
I talkshow sono molto criticati, crede che siano ancora efficaci e utili, o é una formula superata?
«E una pretesa assurda volere una televisione radicalmente migliore del tempo e della società che la esprimono. Ci riuscì Bernabei, ma il contesto di allora non è paragonabile a quello odierno. Oggi, con un`interpretazione non sempre esemplare del pluralismo, e in mancanza di puntuali approfondimenti, il talk-show è un genere che si è conquistato uno spazio importante nei palinsesti quantomeno generalisti. E stata una risorsa credo non esaurita, né a tutt`oggi, drasticamente rinunciabile. Personalmente, ricordo una bellissima inchiesta di Santoro filmata nel mondo dei camionisti, un pezzo di rara efficacia, da Premio Italia».
Si parla di privatizzazione. Nel 2016 la Rai corre quel rischio?
«Quando nacque la concorrenza privata, al mio primo impatto presidenziale con il C.d.A., tra un problema e l`altro si affacciò e proruppe una sorta di disputa tra ideologia e politica, doverosità istituzionali e libertà di espressione che, sotto sotto, esprimeva, seppure non unanime, una sorta di inconfessato disagio per l`arrivo sulla nostra scena di un intruso! La privatizzazione della Rai è l`argomento d`elezione di chi non riesce a farsi un`idea nuova di servizio pubblico. Mi viene in mente chi parla senza sapere bene quello che sta per dire. A un paradosso può capitare di peggio: che nessuno, alla fine, lo prenda sul serio. Una privatizzazione significherebbe omologare, cioè distruggere, quel tanto o poco d`identità su cui si dovrà lavorare per ridarle vigore e credibilità. Quanto alla partita con i partiti, spero che il risultato, finalmente, sia già scritto».
Che consiglio darebbe al presidente della Vigilanza, Fico?
 «Nessuno. Se dovesse sbagliare avrebbe le sue ragioni. Bisognerebbe dar loro la precedenza, e che ciascuno ci mettesse del suo, ma si chiamerebbe solo ragionevolezza».
Come senatore del Pd cosa pensa della situazione attuale, così legata al destino di Berlusconi condannato? E del governo di larghe intese?
«Penso che occorra dare una gerarchia ai problemi che si affollano non solo nel Pd. Stabilendo, preliminarmente, che negli inquietanti scenari del Paese, vada messa in sicurezza la continuità del governo fino al momento in cui sia ragionevole chiudere un compito, del resto, a tempo determinato. La velocità è amica della concitazione, e questa induce all`errore. Va detto al Paese che il futuro non ci aspetta chissà dove, il futuro è diventato di strettissima attualità quando è cominciata la crisi. Ciò premesso, sono obbligate altre ipotesi di lavoro. La previdenza mette in fila i problemi, ordinandoli. Tutti, a cominciare dal primo».
Lei sostiene il ‘Laboratorio per il documentario’ di alcuni giornalisti Rai: si aprirà una nuova stagione?
 «I documentari che lei intende stanno tornando nei nostri porti. Sono quelli della modernità, non arrivano con i velieri. Che cosa portano? Le risposte a un bisogno di realtà trasparente, fatta di materiali non filtrati. ‘Documentario’ è parola chiara, leale, rifugge dagli accomodamenti, discredita le mediazioni, è servizio, non solo spettacolo. In questo senso ha già vinto una prova fino a ieri impensabile: il Festival di Venezia gli ha tributato il Leon d`oro, tra consensi pressoché unanimi. È la vittoria di un ‘genere’ non subordinato e negletto, è persino la sua legittimazione sul grande schermo. Vale, se vale, un film d`autore. Cos`è cambiato? Il Paese, la gente, questo tempo. E un ‘laboratorio’ che creerà nuovi professionisti, non gli eroi dell`impresa».

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