Non sono un cultore della politica cosiddetta politicistica o addirittura politicante, non riesco ad avere il passo, né l`estro, di una dialettica che si inoltra nella complessità per cavarne teoremi fondati su ipotesi di viaggio le più impervie e suggestive, ma perlopiù destinate a dover imboccare, per non perdersi nell`imponderabile, le piste ciclabili. Va da sé che se non si fosse partiti, risolutamente, dal dover scongiurare un disastro economico ormai sull`uscio di casa, unito alla devastante e sempre più debole percezione del pericolo verso cui il Paese stava scivolando, non saremmo qui a chiederci i perché delle energie che la politica continuava a destinare alle questioni un tempo governate in alto dalle ideologie e oggi ridiscese a terra con i loro esausti lasciti dottrinali. E dunque si era fatto stringente l`obbligo di richiamare la politica al realismo e alla responsabilità per misurarsi, in nome del Paese, con lo scenario più disastrato e inquietante della nostra giovane democrazia repubblicana. Bisognava trarre la ‘manovra’, strategica nella sua iniziale, drammatica presa d`atto, da un andazzo addebitabile ai privilegi di caste, corporazioni, rendite di posizione, guadagni indebiti, profitti malavitosi, un vero e proprio costume della trasgressione che agli squilibri economici e relative diseguaglianze aggiungeva la perdita di gran parte dei valori, dei doveri e dei sentimenti iscritti nell`identità civile e spirituale di una nazione.
DECLINO ECONOMICO E DISAFFEZIONE CIVICA
Ma sarebbe opportunistico e ingannevole voler imputare solo alla crisi economico-finanziaria, da cui è investito mezzo mondo, una deriva che, alle prese con i suoi destabilizzanti risvolti morali ed etici, ha influenzato tanta parte dell`indole nazionale, fino a generare la più inquietante disaffezione civica che il nostro Paese abbia conosciuto in mezzo secolo di vita pubblica con il diffondersi dell`inosservanza sotto gli occhi di una comunità sempre più in credito, dalla politica e dallo Stato, di un`attenzione in grado di restituire alla cittadinanza normalità e crescita, cioè sicurezza e avvenire. Questo stesso giornale ha di recente lanciato il segnale dei giovani con laurea e diploma che fuggono dalle loro città per cercare in Europa il riconoscimento della dignità dovuta alla propria esistenza, e dei pensionati che vedono diminuire ogni giorno il poco di cui dispongono. Era ormai plastica la dimensione di una Patria indebolita dallo stratosferico debito pubblico, con il numero crescente dei cittadini assistiti dalla ‘scodella dei poveri’ per i più bisognosi, mentre i disoccupati aumentano e c`è già chi ai ‘risparmi’ ha già aggiunto i ‘tagli’ persino alla più ordinaria assistenza dei farmaci! Eppure si andava dicendo che eravamo ancora un Paese ricco, felice, e per convincerci bastava «un`occhiata ai ristoranti colmi di giorno e di notte». In realtà, se non si otterrà un ragionevole sgravio fiscale, e dall`Europa un nuovo margine di flessibilità, sarà la ‘scodella’ a veder aumentare la clientela.
PARADOSSALI GLI APPLAUSI IN PARLAMENTO
È passato del tempo, e non sarebbe stato possibile sperare in una ‘svolta della crisi’ se non si fosse giunti a una conclusione che azzerava ogni pretesa alternativa: mi riferisco al memorabile discorso di Giorgio Napolitano alle Camere riunite nel giorno del giuramento per la sua seconda elezione alla presidenza della Repubblica. Le sue parole, via via trasformate in una denuncia e in un monito, ci hanno detto, punto per punto, perché dover esprimere un grave giudizio politico e sociale, civile e morale sulle inadempienze invalse nell`andamento sempre più trasgressivo della ‘cosa pubblica’. L`invettiva presidenziale non avrebbe prodotto così in profondità il consenso pressoché unanime del Parlamento se dall`emiciclo – come rischiarato da un`improvvisa consapevolezza. e sospinto dai suoi stessi bisogni di trasparenza e di normalità – non si fosse levato, a ogni severa deprecazione del presidente, un inatteso, emozionante, persino paradossale apprezzamento di parole mai usate, in quella sede e in quella forma, lungo tutto l`arco della nostra democrazia repubblicana. Napolitano parlava di omissioni, corruttele, irresponsabilità, promesse mancate, opportunità eluse, correità celate, impunità diffuse. Sordità morale e mutismo civile, insomma. Complici involontari anche gli spari dissennati contro i Carabinieri di Palazzo Chigi qualche giorno dopo? Solo fantasmi? Forse le parole di Napolitano saranno ricordate come ‘quelle della svolta’; non solo in termini temporali, ma in rapporto al peggio che già ci era addosso e che stavamo vivendo con una sorta di spaesamento incline al disincanto, alla disaffezione, alla resa. Le parole di quel giorno cadevano tutt`intorno al gorgo nel quale un improvviso e drammatico smottamento avrebbe potuto spingerci, e richiamavano all`urgenza di volgere l`energia e la funzione della politica verso una volontà condivisa di portarci lontano da una sciagura. La fine del mandato di Giorgio Napolitano, lo scadere della legislatura, il governo Monti, che esaurito il suo compito, arduo e radicale, era ormai obbligato all`ordinaria amministrazione, il crescente pericolo che i mercati si disponessero a una nuova ondata speculativa, la disoccupazione in aumento, le imprese fallite, la sconfitta di esperienze lontanamente vittoriose e i suicidi che decretavano le capitolazioni, la controversa questione degli esodati e di quanti vedevano a rischio persino la ‘cassa integrazione’, inducevano le forze politiche – partendo dal Partito democratico, che aveva ricevuto il massimo consenso elettorale – a tentare la formazione di un governo che gli oppositori di soluzioni ‘innaturali e posticce’ volevano ‘non del Presidente’, né di ‘larghe intese’, né ‘di servizio’, né ‘di scopo’; veniva poi proposto per il Colle Franco Marini, quindi Romano Prodi con un risultato addirittura lacerante quando, dopo un`assemblea unanimemente favorevole, il segretario Pier Luigi Bersani si è visto il voto delle Camere mozzato da 101 schede bianche; l`avviso, infine, che la crisi politica veniva saldandosi non più solo trasversalmente con quella dell`economia e della finanza, ma anche con le riserve espresse dai cosiddetti ‘mal di pancia’ e persino dai ‘colpi a sorpresa’. L`opposizione, l`altro volto della realtà, ha ben altri strumenti per affermare i suoi, anch`essi vitali, diritti.
C`È UN INTERESSE COMUNE NEL SAPER CEDERE QUALCOSA DI SÉ
Giorgio Napolitano, fatto oggetto di un invito sempre più condiviso e pressante a rinnovare la sua presidenza, aveva resistito finché il suo fermo diniego non ha ceduto all`eccezionale gravità del momento. Il resto è noto. Non solo il Parlamento italiano nella sua grande maggioranza e con una acclamazione impressionante, ma anche l`Europa e l`America, gli manifestano un forte apprezzamento. Obama è tra i primi a ringraziare il Presidente – con cui aveva recentemente dialogato, a Washington, ‘per un`ora e mezzo’ – per aver compiuto un gesto ‘nobile e coraggioso’. Il breve, concitatissimo ciclo della ‘resipiscenza’ era concluso, pur trascinando sussulti, disapprovazioni e rifiuti non tutti immotivati e deprecabili. I conti d`oggi ci ricordano una comunità rinata dopo la guerra applicando la regola, unica nella sua efficacia, della ‘buona economia’ einaudiana, poi l`’Oscar della lira’ si era qua e là perduto nelle sopravvenute esigenze degli interessi di parte, nelle teoriche analisi sullo ‘sviluppo sostenibile’, quando si sarebbe presto scoperta l`urgenza di riattivare una crescita in equilibrio con il passo dei consumi, e la disoccupazione preparava lentamente una deriva, essa sì, insostenibile; senza che la politica, insomma, si desse la ‘mentalità condivisa’ tratta dalle culture solidali, laica e cattolica, e dall`urgenza sociale del dover vivere insieme, ma stentando a riconoscere un interesse comune nel saper cedere ciascuno qualcosa di sé. Ciò non è accaduto per la scelta dell`Esecutivo nresiedurn da -› tnrico Letta, subito riconosciuto nelle sue sobrie e preziose qualità personali: era nato un governo che il presidente Napolitano, correggendo qualche forzatura, aveva subito dichiarato ‘politico’, di cui si erano fatte garanti le forze disponibili a esercitare dedizioni é responsabilità, rispettando la Costituzione e accettando quello che va giudicato il valore massimo della politica, quando si venga chiamati a queste difficili prove e si debba avviare, per il dopo, il recupero di tutte le risonanze significative derivanti dall`aver dato al Paese il più ‘indispensabile’ dei governi; cioè quello che non ha trovato alternative reali e legittime, e nascendo dalla sofferenza di un sistema non più ossificato nella pretesa dei singoli primati, era pronto a interpretare il criterio, se non anche il principio, di una ‘ragione ragionevole’ dopo tanto costo di ‘lacrime e voti’, come aveva titolato un giornale. Nell`attesa che una sistematica normalità restituisse un Paese affrancato dai suoi gravosissimi sacrifici.
TWITTER RASSICURA MA NON AIUTA IL CONFRONTO
È nel frattempo cresciuto l`appea/ della Rete, fonte, ritrovo e volano di molta effimera comunicazione. Mi ha colpito, in proposito, l`idea di Paolo Di Stefano quando, a proposito di un argomento fattosi in fretta adescante anche per la politica, reputa quella di Twitter «una filosofia che ti connette all`istante con ciò che ti interessa». Però… è il club degli uguali, una filosofia centripeta che contribuisce a rassicurarti! Ciò che manca, invece, è un social network centrifugo, che agisca per contrasti, per differenze». È una inedita metafora dedicata ai nuovi modi del far politica: non un sistema che omologhi non solo i simili, gli affini, cioè annodando segmenti d`identità atti a farsi tutt`uno – con il dazio, si ricorderà, pagato da Prodi all`Unione – ma anche con la dialettica dei diversi, atta a capire e scegliere la ricchezza di una difformità condivisa. Dal mio mestiere di giornalista ho appreso che non si esce mai completamente indenni da ciò che ci si scambia dialogando: se ti parlo ti cambio, e altrettanto è l`opposto. E se la politica è l`arte della possibilità, per il tempo delle sue conclamate emergenze quella ‘della decisione e della responsabilità’ è la miglior politica. È stato detto: «È reale ciò che vede la maggioranza»; non è un assioma, tantomeno squisito, ma la politica risponde di ciò che potendosi fare perciò stesso va fatto, si occupa di ciò che è vitale, quindi inderogabile; e non è mai tanto importante come quando, essa stessa, sembra autorizzarci a voltarle le spalle. È appena successo, e dovremmo esserne fuori. A lungo, spera una parte; e a breve l`altra. Ma la precedenza va a chi è nella possibilità, nel diritto e nel dovere di fare. Il perché è nelle cose, libere ed eque, ideali e concrete, durevoli e transitorie. Come, appunto, in democrazia.

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