
L’Intervento del Presidente del Consiglio al Senato
Signora Presidente, onorevoli senatrici e onorevoli senatori, lascerò alla Presidenza del Senato il testo dell’intervento che ho svolto questa mattina alla Camera dei deputati, come era accaduto, a parti invertite, in occasione del voto di fiducia. Mi limito a enucleare i punti fondamentali, e non paia questo un tentativo di accelerare i tempi in vista di altri impegni del pomeriggio, che credo sarebbe ampiamente condiviso dall’intero arco costituzionale. Voglio augurarmi che sarà una di quelle scelte apprezzate anche dall’opposizione.
In realtà, battute a parte, credo che sia per me doveroso limitarmi ad evidenziare alcuni punti che costituiscono il sommario dell’intervento di questa mattina e, più nel dettaglio, degli appuntamenti che attendono il Governo a partire dai prossimi giovedì e venerdì. Giovedì l’appuntamento del Consiglio europeo non sarà a Bruxelles (sarà da venerdì a Bruxelles), ma a Ypres, luogo di guerra, della prima e della seconda guerra mondiale. È molto interessante, a mio avviso, che si colleghi la storia europea e ciò che ci attende con un luogo simbolo, che tenga insieme il dramma della storia con i milioni di morti del primo e del secondo conflitto mondiale con il luogo della speranza: l’Europa come condizione della speranza.
Spesso stiamo a discutere e a riflettere tra di noi su un codicillo, un cavillo, un vincolo, un parametro, ma l’Europa è questo: il frutto di settant’anni di pace dopo secoli di guerra. L’Europa è – perdonatemi il gioco di parole – il luogo dell’utopia. Si dirà che l’utopia è il non luogo, ma è il luogo dell’utopia esattamente in considerazione del fatto che l’aver scelto di costruire settant’anni di pace nasce da una generazione che ha conosciuto il dolore della guerra.
A Ypres si decideranno i vertici dell’Unione europea, della Commissione europea per i prossimi cinque anni. È significativo che ciò accada dopo una cerimonia in cui si ricorda il conflitto, quell’Europa che era una frontiera, una trincea, una polveriera.
Nell’intervento che consegno alla vostra attenzione stanno le considerazioni sulla scelta dei nomi per la guida dell’Unione europea, della Commissione europea, del Consiglio europeo, dell’Eurogruppo, dell’Alto rappresentante della politica estera e del Parlamento europeo; ma questo sia inserito in una cornice in cui l’Italia si presenta non intenzionata a chiedere spazio o posti, perché magari è legittimata dal successo elettorale di questo o di quel partito. L’Italia si presenta a chiedere che le persone che svolgeranno il servizio pubblico all’interno dell’Unione europea abbiano l’ambizione e l’orizzonte degno di chi conosce la grande sfida che abbiamo tutti noi di fronte.
Il vertice europeo prosegue con una discussione sull’immigrazione. Abbiamo già avuto modo di affrontare, anche in questo Senato, le discussioni di merito sull’operazione Mare nostrum, sulla necessità che Frontex cambi il proprio orizzonte di interesse, non soltanto sul confine orientale, ma anche su quello meridionale, vale a dire che consideri sempre di più il Mediterraneo come un luogo dell’Europa e non un luogo di qualche Stato membro. Abbiamo già avuto modo di dire, parlando in questo Senato, come sia centrale per noi la dignità dell’intervento di Mare nostrum per il quale, nel testo, ho portato il ringraziamento del Governo alle donne e agli uomini della Marina, del volontariato, del mondo delle amministrazioni locali, che si impegnano in prima persona e che credo meritino il riconoscimento di tutta la Nazione per il lavoro che stanno svolgendo indipendentemente dalle idee che ciascuno può avere sull’operazione Mare nostrum. (Applausi dai Gruppi PD, SCpI, PI e NCD). Contemporaneamente abbiamo detto che c’è una necessità d’intervento condiviso e comune per cui i valori dello stare insieme sono più grandi della singola moneta o del valore economico di questo o quell’impegno preso da singoli Stati. In altri termini, la civiltà di andare a salvare vite umane non può essere solo appannaggio di una comunità, di una Nazione. Se siamo convinti di questo diciamo in tutte le sedi, anche nella discussione pre-Consiglio europeo, che chiediamo il mandato dal nostro Parlamento per andare in Europa a chiedere di modificare la politica dell’immigrazione. Non esiste che ci sia una raccomandazione che vale per gli Stati membri circa la necessità di accogliere le persone rifugiate che chiedono di esercitare il diritto di asilo e che contemporaneamente si assista a una miopia da parte delle istituzioni europee.
Venerdì mattina saremo già a Bruxelles e discuteremo nella sede del Consiglio europeo della rilevanza delle raccomandazioni della politica economica – il 2 giugno abbiamo ricevuto le raccomandazioni di cui l’opinione pubblica e il Senato e la Camera hanno già discusso – ma noi pensiamo che l’Europa non possa diventare un elenco di raccomandazioni e di problemi. Per questo insistiamo con grande forza sul fatto che l’Italia presenti nella sede europea un pacchetto di riforma puntuale, specifico e legato a un disegno d’insieme, che sia in grado di abbracciare sostanzialmente l’arco di questa legislatura per chiedere come naturale conseguenza, e non in cambio, che vi sia il riconoscimento di quella flessibilità che sta dentro le regole costitutive dell’Unione europea. Non si può continuare a dire che l’Europa sta insieme perché c’è un Patto di stabilità. Viola il trattato e lo spirito europeo chi parla soltanto del Patto di stabilità; non chi chiede di parlare di crescita, perché elemento costituivo degli accordi europei è il Patto di stabilità e crescita. Non esiste stabilità senza crescita. (Applausi dal Gruppo PD). Non esiste stabilità senza una lotta senza quartiere alla disoccupazione. Non esiste stabilità senza il riconoscimento che in questi anni è mancata da parte della politica la capacità di affermare che quelle regole alle quali ci siamo vincolati non sono semplicemente da cambiare. Ciascuno può pensare come vuole; noi non sosteniamo che devono essere cambiate, ma, nel dire che devono essere osservate, diciamo con grande chiarezza e nettezza che queste regole impongono di mettere al centro dello stare insieme in Europa non semplicemente il rispetto di un parametro di bilancio, ma il rispetto della crescita dei Paesi. Questo non è avvenuto.
Questa mattina ho sottolineato un fatto molto semplice, che troverete nel testo per chi di voi avrà il tempo e la pazienza di leggerlo. Peraltro, se n’era discusso proprio in questa Aula dopo un intervento di un senatore delle opposizioni nel corso della discussione sul precedente Consiglio europeo. È stato proprio durante l’ultimo semestre di Presidenza a guida italiana, quello guidato dal presidente Berlusconi, nel secondo semestre del 2003, che due Paesi importanti e rilevanti che costituiscono da sempre la spina dorsale della Comunità economica europea e prima ancora della CECA (la Francia e la Germania) chiesero e ottennero di uscire dai limiti del 3 per cento, che sono i limiti tipici delle regole del gioco europee.
Era il 2003. Non voglio ricordare ciò che accadde per la Francia. Mi limito a dire che la Germania oggi è il Paese che più di ogni altro è riuscito a vincere la crisi. Si può discutere di quanto il tasso di crescita in Germania sia comparabile con il resto del mondo. Noi, naturalmente, faremmo volentieri a cambio, ma a livello internazionale e globale sappiamo che le percentuali alle quali l’intera zona euro sta crescendo sono ancora basse. Ebbene, la Germania, che cresce più di ogni altro Paese europeo, non avrebbe oggi le condizioni per affrontare la crisi se il Governo Schröder non avesse annunciato, proprio durante quel semestre, una serie di riforme che hanno consentito a quel Paese di affrontare la crisi meglio di altri.
Allora (e questo è il punto di comune sintonia tra il Governo italiano del 2014 e il Governo tedesco del 2003) fu presentato un organico pacchetto di riforme. L’elemento di distonia è che noi non chiederemo, come pure fecero i tedeschi, di superare il vincolo del 3 per cento. È però interessantissimo notare come, se c’è un pacchetto di riforme credibili, le regole stesse dell’Europa permettono – per non dire consentono, per non dire impongono – di aiutare e agevolare lo sforzo riformatore dei Paesi che hanno voglia di stare dentro la dinamica della crescita e dello sviluppo. Questo deve essere chiaro, perché, se non c’è questo elenco, ogni tipo di valutazione nostra sui progetti di riforma sarà parziale e limitato.
Nel corso dell’intervento svolto presso la Camera dei deputati ho suggerito di considerare però il semestre europeo (che nell’ordine del giorno del Senato di oggi è in discussione insieme alle comunicazioni relative al Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimi) non soltanto come il luogo nel quale discutere di regole, di vincoli e di parametri.
Noi pensiamo e crediamo che il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea sia una gigantesca opportunità per vincere la sfida educativa e culturale sulla quale in questo momento stiamo soffrendo. L’Europa non può essere semplicemente il luogo dove andare a chiedere, di volta in volta, uno sconto di pena, come una parte dell’opinione pubblica lascia pensare.
Cosa è l’Europa? Il luogo nel quale mi reco, più o meno, con il cappello in mano – per utilizzare una sintesi giornalistica – per andare a chiedere: «cortesemente, questo o quel parametro può essere considerato meglio?». L’Europa non è il luogo dello sconto della pena. L’Europa è il luogo nel quale, investendo in educazione, ricerca e università, saremo in grado di creare un’idea di cittadinanza diversa. L’Europa è il luogo nel quale un grande investimento sull’information and communication technology consentirà ai nostri figli di essere cittadini globali animati da una sana passione per i valori comuni e comunitari ma, comunque, capaci di affrontare le sfide del mondo. L’Europa è il luogo nel quale oggi si affrontano le difficoltà e le bellezze del nostro tempo, non rinchiusi in una visione tutta legata al passato e incentrata sul rimpianto, ma con una visione curiosa, innovativa. L’Europa è il luogo che può dare gentilezza al mondo intero, gentilezza nel senso politico del termine (chi di noi conosce e ricorda le parole con cui Aung San Suu Kyi ha ottenuto il premio Nobel per la pace sa che parlare di gentilezza in politica non è parlare di galateo). L’Europa è il luogo nel quale – potrebbe dire un grande europeo – si può civilizzare la globalizzazione. L’Europa è questo.
Il nostro semestre vuole discutere di questi temi. Non vuole ragionare e riflettere semplicemente su un numero, o su uno «zero virgola».
Per questo è importante l’appuntamento dell’8 luglio a Venezia con il Digital Venice, l’appuntamento sull’innovazione e la tecnologia, come importante è tenere insieme la tecnologia con l’innovazione della pubblica amministrazione, la tecnologia come chiave di sviluppo per l’energia. Oggi l’energia è parzialmente tecnologia, non soltanto fonte di risorse; è anche il modo con il quale queste risorse vengono condivise. Tecnologia oggi è la capacità di creare nuovi posti di lavoro; tecnologia oggi è start-up; tecnologia è investimento sul futuro.
Abbiamo spostato il vertice di Torino dell’11 luglio alla fine del semestre perché chiediamo – l’ho scritto nel testo che ho consegnato – di poter discutere di lavoro alla fine del percorso parlamentare interno, sperando di riuscire ad approvare la legge delega entro la fine dell’anno: questa è la scommessa che la maggioranza fa e che chiede di vincere al Senato e alla Camera. E contemporaneamente perché pensiamo che alla fine del semestre, verso dicembre, potremo anche valutare meglio il programma Garanzia giovani con i suoi effetti, dicendo già da adesso che per noi non può limitarsi a un intervento spot di qualche mese, ma deve essere opportunamente verificato, dopo la prima esperienza, come uno degli elementi chiave dei prossimi mesi e anni.
Il 16 e 17 ottobre a Milano accoglieremo i Paesi asiatici nel vertice ASEM e avrà luogo il confronto tra Europa e Asia.
Vi è poi l’impegno che vogliamo inserire – troverete nel dettaglio le indicazioni del nostro sguardo sul vertice europeo – sulla lotta per una politica europea degna di questo nome sui temi delclimate change, sia in vista dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 22, 23 e 24 settembre 2014, sia dell’appuntamento di Parigi, dove speriamo di poter portare l’Europa con una voce sola.
L’elenco degli appuntamenti continua e lo troverete nel testo che consegno alla Presidenza. Vorrei lasciarvi anche alcune riflessioni che riguardano il rapporto che si è creato e si creerà nelle prossime settimane tra le nuove istituzioni europee e i cittadini. È su questo punto che vorrei chiudere in modo molto rapido: non si tratta solo di un discussione legata alle questioni di politica monetaria. Eppure sarebbe interessante ragionare di come la moneta e la finanza siano elementi costitutivi della ricchezza di un popolo, non solo per l’aspetto economico. Oggi è il 24 giugno e nella mia e nostra Firenze è il giorno di San Giovanni, giorno del patrono nel quale si ricorda il santo: il santo è impresso come effige nel fiorino, che era la moneta chiave della globalizzazione dell’epoca. Sarebbe molto interessante ragionare di cosa voglia dire «San Giovanni non vuole inganni», ma non saremo qui a tediarvi su questo. Il punto è che quell’investimento monetario consentiva a quella città e a quell’economia di investire. Di investire dove? In educazione e in cultura. Se non ci fossero state le borse di studio finanziate dai filantropi e dai ricchi dell’epoca non ci sarebbe stato Dante Alighieri a studiare a Santa Maria Novella. Se non ci fossero stati le operazioni finanziarie dell’epoca e gli investimenti economici, non ci sarebbero state le pale sugli altari e la bellezza della storia dell’arte in quella città. Se non ci fosse stata la grandezza della finanza applicata alla cultura, non si sarebbe dato vita a quella straordinaria operazione chiamata Rinascimento.
Allo stesso modo oggi la politica monetaria non può che essere inserita in una cornice più ampia. Invece in questi anni – questa è la nostra tesi che nel testo alla vostra attenzione potete verificare – la politica monetaria in Europa è stata angusta e legata semplicemente ad uno sguardo tecnocratico e privo di orizzonti ampi; è stata basata su un criterio di rigore economico cui non è stato dato seguito con un investimento reale sulle condizioni di vita delle persone. Questo elemento, che viene considerato e condiviso da tanti, non è stato però sufficientemente arricchito da un’autocritica della politica. Infatti, se la politica dice che è accaduto questo, ma non racconta che cosa hanno fatto i politici nel momento in cui avevano la possibilità di cambiare le cose e si sono arresi di fronte allo status quo, è evidente che questo sguardo è parziale e limitato.
Sarebbe dunque molto interessante che nel dibattito potessimo toccare questi temi, ma dovremo farlo e lo faremo a partire dal Consiglio europeo, partendo da un punto di evidenza a tutti: oggi l’Italia è più forte.
Oggi l’Italia è più forte per molti motivi in questo dibattito. È forte perché vi è stato un risultato politico che ha visto in questo Paese un partito ottenere più di tutti gli altri partiti a livello europeo. Il partito più votato a livello europeo è un partito italiano. (Applausi dal Gruppo PD).
Non abbiamo, quindi, un problema di mancanza di rispetto nei confronti degli altri o, viceversa, un vulnus di democraticità; non abbiamo paura di confrontarci su questo. Ma l’Italia è forte in questa discussione anche perché ha recuperato l’autostima e l’autorevolezza per poter sedere ai tavoli europei e dire che noi non andiamo in Europa a prendere un elenco di cose da fare per portarlo a casa. Noi ci presentiamo al semestre europeo con l’umile consapevolezza, con la coriacea determinazione di chi sa che tanto deve imparare, ma anche che qualcosa deve dare e dire.
Smettiamo di considerare l’Europa come il luogo di chi ci fa le prediche o, peggio ancora, di chi ci dà lezioni. Abbiamo da imparare da tutti, ma la storia dimostra che la forza dell’Italia è data naturalmente dalla qualità dei propri lavoratori, dalla positività della ricchezza di questo Paese. Continuiamo, infatti, a parlare di debito pubblico – che c’è ed è innegabile – ma c’è una ricchezza privata e, talvolta, anche pubblica in Italia che non ha eguali nei Paesi occidentali e che dobbiamo imparare a valorizzare di più e meglio, magari facendo sistema, come Paese, anziché utilizzare l’Europa come luogo nel quale andare a litigare tra di noi.
Recuperare l’orgoglio dell’italianità, intesa non come confine geografico, ma come desiderio di futuro e voglia di ottimismo, non generico e astratto, ma legato alle possibilità di un cambiamento radicale, è una delle condizioni con cui andiamo a sederci ai tavoli europei. Lo faremo con ancora maggiore determinazione se da questo dibattito e, più in generale, dalla discussione parlamentare trarremo la forza e in qualche modo – lasciatemelo dire – la forza di volontà di chi sa che, nel tempo che stiamo vivendo, la politica non è un accidente necessario, non è un male passeggero, ma è la condizione per le donne e gli uomini di immaginare un futuro che sia all’altezza dei sogni più belli.