Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd renziano, adesso il Giglio magico è rimasto davvero senza petali.
«Più che petalo, ho avuto il ruolo più bello ma più difficile in politica: fare il tesoriere senza finanziamento pubblico. Cinque anni meravigliosi, e non saranno gli ultimi».
Lei, renziano ortodosso, ha votato per Giachetti. Si aspettava un tale plebiscito pro Zingaretti?
«L’esito lo immaginavo. Ma sono felicissimo di questa incredibile partecipazione».
Lei è cresciuto in una famiglia a filiera Pci-Pds-Ds. Poi è diventato lo scudiero di Renzi. Ora torna la «Ditta»?
«Mi auguro non sia un ritorno al passato, che ha portato solo sconfitte».
Continuerà a fare politica o si concentrerà sul suo studio di avvocati, dove lavora anche Maria Elena Boschi?
«Ho voluto sempre fare politica: la mia passione e la mia vita. Però ho seguito il consiglio di mio padre: “Continua sempre a fare la cosa per cui hai studiato”».
E il suo 730 ne ha beneficiato molto… Meriti professionali o anche delle ricorrenti relazioni politiche?
«Veniamo dalla scuola giuridica di Firenze una tra le migliori in Italia. E chiaro, poi, che la notorietà non ha guastato».
La nota dolente: i conti. Sapeva che sarebbe stato il primo silurato da Zingaretti?
«Non è un siluramento. L’assemblea del Pd dovrà eleggere il nuovo tesoriere. Ed è ovvio che Zingaretti scelga una persona di fiducia».
Qual è lo stato di salute delle casse del Pd?
«I conti sono in equilibrio. Dal 2013 ad oggi abbiamo tagliato di quasi il 70% tutti i costi del Nazareno. Poi siamo dovuti ricorrere alla cassa integrazione per tutti i 17o dipendenti. È stato il momento più brutto della mia esperienza politica. D’altronde siamo passati da un finanziamento pubblico di circa 4o milioni l’anno ad uno tutto privato di 12 milioni. Il prossimo bilancio si chiuderà con una lieve perdita: un successo considerando i costi della campagna elettorale. Il nodo più difficoltoso è stato recuperare le morosità dei parlamentari: in tanti non solo si sono fatti fare un decreto ingiuntivo, ma si sono addirittura opposti».
Per Antonio Misiani, l’uomo dei conti della «Ditta» bersaniana, è un ritorno. Cos’è cambiato nella raccolta fondi tra «voi» e «loro»?
«Il senatore Misiani sarà in grado di svolgere bene questo compito, sapendo che è totalmente diverso da quello di sei anni fa. Negli ultimi tre anni il Pd si è aggiudicato il 52% del 2 per mille dagli italiani: se votassero solo queste persone avremmo la maggioranza assoluta».
Molti dei grandi finanziatori del renzismo hanno virato verso Salvini. Perché?
«È naturale che alcuni imprenditori vogliano sostenere i partiti che sono al governo. Tanti sono però delusi e impauriti dall’esecutivo gialloverde: lo dicono indicatori economici, tutti in ribasso».
Avete ricevuto finanziamenti da tanti. I soldi da Parnasi per la fondazione Eyu le hanno creato problemi. Non crede servisse più accortezza e che a qualcuno avreste dovuto dire «no, grazie»?
«Respingo in modo categorico. Siamo sempre stati molto scrupolosi. I problemi giudiziari a carico di qualche nostro sostenitore sono emersi successivamente, e al Pd non abbiamo la sfera di cristallo. La nota vicenda comunque riguarda la fondazione Eyu, non il partito».
Lei è stato al timone nella stagione di massimo potere del Pd. Un successo effimero: spesso siete stati arroganti. Oltre a questo errore, sia sincero, cosa si rimprovera?
«Il nostro entusiasmo e la voglia di cambiare l’Italia, a volte, si sono trasformati in un limite. Roma è più complessa e più difficile di quanto potesse pensare un gruppo nuovo e giovane come il nostro».
Oggi è più difficile, ma se Renzi se ne andasse dal Pd lei lo seguirebbe?
«Io sono legato a doppio filo con Matteo. Non perché è un mio amico, ma perché condivido in tutto e per tutto la sua visione dell’Italia».


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