Nel nostro Paese, caso quasi unico in Occidente, manca una politica nazionale per le città. Fatto assai paradossale, per una nazione nata dai cento Comuni. E manca l’organismo di coordinamento politico nazionale capace di orientare e far sintesi tra mille soggetti e istituzioni. Abbiamo visto negli anni progetti importanti (Piano Città, Bando Periferie…) ma si è trattato di interventi senza un disegno complessivo, senza continuità, privi di un finanziamento organico e stabile nel tempo.
Siamo in presenza di “città deliranti”, ovvero città nelle quali si assiste da un lato a una continua espansione senza limiti di consumo del suolo (sprawl urbano), dall’altro all’aumento delle aree urbane dismesse (cosiddetto brownfield) all’interno delle città stesse, le quali in non pochi casi versano in stato di abbandono e degrado anche nei centri urbani e nei centri storici e non solo nelle periferie. Lo stesso termine periferia ha perso il suo originario significato topografico di area urbana posta al limite esterno della parte centrale della città e ha assunto sempre più una connotazione di tipo socio-economico, di area soggetta a degrado e abbandono.
È evidente che le conseguenze di tale modello sono gravi tanto a livello ambientale, quanto a livello economico, sociale e culturale. A città che si sono via via “allargate nel territorio” corrispondono comunità spaesate e impaurite. La perdita dei luoghi che caratterizzano la vita delle comunità infatti ha un impatto negativo diretto sulle comunità stesse.
Si tratta allora di rigenerare profondamente le nostre città, di ridisegnarle e ricostruirle attraverso un processo di demolizione e di ricostruzione, di rottamazione edilizia e di rifunzionalizzazione, avendo l’ambizione di garantire una nuova qualità e una sostenibilità della vita stessa dei cittadini all’interno degli spazi urbani. Consapevoli che il cambiamento climatico obbliga a porre al centro tanto le politiche di mitigazione (diminuzione delle emissioni nocive e climalteranti) sia quelle adattive.
La stessa pandemia da Coronavirus sta radicalmente mutando l’utilizzo degli spazi e dei tempi e il cambiamento in atto segna una svolta radicale e strutturale. In tale direzione va dunque superato definitivamente un approccio urbanistico-espansivo e intrapresa con decisione una nuova visione urbanistico-rigenerativa, interdisciplinare ed olistica e non più settoriale. In questa direzione è necessaria una profonda revisione delle norme: è incredibile che la legge urbanistica generale sia del 1942. Per questo in Senato stiamo speditamente scrivendo una nuova legge di sistema, uno strumento organico per “fare” la rigenerazione urbana anche nel nostro Paese e non solo chiacchierare su di essa.
Le finalità della rigenerazione urbana prevista dalla nuova legge (atto Senato 1131) sono molteplici e vanno dal riuso edilizio di aree già urbanizzate e di aree produttive, al miglioramento del decoro urbano, al sostegno della biodiversità, al contenimento del consumo del suolo, alla riduzione dei consumi idrici, alla tutela dei centri storici caratterizzati da forte pressione turistica, al contrasto della desertificazione commerciale, all’integrazione delle infrastrutture della mobilità del ciclo dei rifiuti con il tessuto urbano, fino all’implementazione di infrastrutture digitali innovative, al sostegno dell’edilizia residenziale o abitativa sociale (social housing), all’efficientamento energetico, nonché a favorire la partecipazione attiva degli abitanti sin dalle fasi di progettazione e nella gestione dei programmi di intervento.
Tra i molti strumenti previsti dalla nuova legge vi sono gli incentivi fiscali, la modulazione degli oneri di urbanizzazione in base alla qualità degli interventi, il principio per cui una nuova giunta non può disfare il lavoro fatto dalle precedenti amministrazioni a meno di un dimostrabile maggior interesse pubblico, l’analogia con il codice degli espropri per permettere all’interesse pubblico di prevalere su quello privato laddove il Consiglio comunale abbia determinato le aree da rigenerare


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