Per un adolescente il futuro è un orizzonte di prospettive e di “sorti migliori e progressive”, che non spaventa. Invece il contagio ha interrotto questa linea evolutiva, verso il domani. Per molti ragazzi il mondo sembra essersi fermato, intrappolandoli in un lockdown emotivo. Bisognerà mettere in campo un lavoro di cura che coinvolga tutte le agenzie educative per restituire a una generazione il coraggio di guardare al futuro senza paura

Uno dei problemi più seri determinati dall’epidemia di Covid-19 ha riguardato la vita dei bambini e degli adolescenti. Non si tratta, in tutta evidenza, solo della mancanza della scuola e della inevitabile perdita di alcuni mesi di lezione, ma anche delle conseguenze di un lungo periodo di isolamento e solitudine, in una fase della vita dove ancora non si ha un emotività “strutturata” ed è assai complesso, certamente impossibile per i bambini, provare a dare risposte alle domande sulla vita, alle paure ancestrali, all’instabilità e alle incertezze. Un elemento che è balzato agli occhi di molti, al termine della fase 1, riguarda in particolar modo gli adolescenti; molti di loro, infatti, una volta terminata la quarantena, non sono riusciti a riemergere dalla tane domestiche che si sono costruiti nei due mesi di lockdown. Per alcuni, il mondo si è fermato e non sono ancora riusciti a riprendere la via della socialità, del confronto e di una seppure incerta normalità. Ed è sorprendente perché per un adolescente il futuro è un orizzonte, spesso, gioioso, che non spaventa. Il futuro è un orizzonte di prospettive e di “sorti migliori e progressive” che eccitano la psiche, nella misura in cui delineano la costruzione di scenari inediti e nuovi.
Invece il contagio pare avere interrotto questa linea temporale, mentale e evolutiva, verso il domani; da qui deriva la difficoltà a ricostruire e ridare senso al futuro o a riempire la normalità di un nuovo significato che smetta di coincidere con un isolamento non più necessario. Evidentemente molti ragazzi, durante la quarantena, sono stati messi al riparo dal confronto che viene vissuto anche come competizione, dalla frenesia della vita quotidiana, dalle corse perenni, dall’eccesso del fare. La reazione a questa modalità, a tratti esasperata, sta anche nella volontà di non ripartire oggi. Su questo dobbiamo interrogarci come educatori, come genitori, come insegnanti, come adulti per capire se il nuovo modello di vita imposto ai nostri ragazzi, nella maggior parte dei casi, ricco di opportunità, attività, incontri, nuove tecnologie, aspettative frenetiche, sia il migliore per garantire il loro benessere psicofisico e una crescita realmente equilibrata.
A ciò si aggiunga l’urgenza di capire quanto il virus e il senso di morte, precarietà e paura che ha portato con sé, abbia influenzato e avuto un effetto dirompente sui ragazzi e il loro equilibrio. In questo senso, sono convinta che molti di loro andranno sostenuti e aiutati, anche in ambiente scolastico, attraverso il confronto con pedagogisti, educatori o psicologi che, anche nell’attività di gruppo, possano sciogliere gli enormi nodi che l’horror vacui del coronavirus ha prodotto nelle loro giovani vite. Molti hanno sviluppato ansia e paura dopo essere stati catapultati dentro un evento storico mondiale che ha a che fare con la morte e il dolore e cambierà nel profondo il sistema sociale ed economico nel quale siamo vissuti finora con conseguenze che, oggi, non possiamo immaginare e misurare. Si tratta di un evidente fatto psicologico e sociale che dobbiamo affrontare perché agisce su un’intera generazione che sarà quella del post pandemia.
lti ragazzi il mondo sembra essersi fermato, intrappolandoli in un lockdown emotivo: hanno preferito non scendere (in questa decisione pesano in eguale misura la paura del Covid-19 ma anche il rifiuto di un modello di vita carico di impegni che impedisce di approcciare in modo equilibrato il sé). Credo che il nostro compito sia quello di aiutarli a risalire sul treno in corsa delle loro esistenze, senza paura e con una nuova consapevolezza. Questo è un compito fondamentale che aspetta ogni adulto che avrà a che fare con loro nei prossimi mesi perché la generazione di adolescenti post Covid è uscita da una nuova guerra, dentro un fatto straordinario che farà la storia del primo centenario del 2000. Penso a quanto possa essere difficile per chi è esuberante, pieno di vita e senza un ventaglio strutturato di emozioni, dover mediare tutte le relazioni attraverso lo schermo dei dispositivi di sicurezza, quanto possa essere complesso tenere le distanze in un’età della vita che è fatta di abbracci, contatto, eccessi. E, dunque, anche se il lockdown è finito, molti ragazzi hanno la sensazione totalmente comprensibile di essere piombati, come alieni, in un altro mondo e che quello di prima non esiste più risucchiato da un’epidemia spaventosa. E, per questo, hanno scelto di rimanere nel bunker, al riparo dalle bombe invisibili di questa armata batteriologica. Come ha sottolineato molto bene Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, «il lockdown è finito ma la vita di prima non c’è più. Ogni cosa intorno a loro è incerta, respirano un’aria depressiva, la pandemia ha cancellato i riti di passaggio della fine della scuola, della preparazione collettiva dell’esame di maturità. L’estate è una nebulosa. Andare sì, ma verso dove?».
Senza il senso del domani, della programmazione, della vita che scorre, per i ragazzi è difficile tenere viva l’indispensabile “ansia del domani” e la capacità di guardare al fuori con entusiasmo e curiosità. Elementi determinanti nella crescita e nella formazione verso l’età adulta. È drammatico reinventarsi senza un orizzonte entro cui ricostruire le proprie storie, immaginare un futuro, ma anche, più semplicemente, pensare alla bellezza sorprendente di un giorno dopo. E allora, molti di questi ragazzi hanno pensato che la soluzione migliore fosse quella di rimanere nel contesto familiare dove, spesso, sono coccolati, accuditi, vivono le relazioni con gli amici mediate dagli strumenti virtuali offerti dalla tecnologia. Insomma, hanno preferito rimanere nel loro nuovo mondo, ricostruito a misura di virus, che pare il rifugio migliore, sicuramente il più sicuro. Lo schermo protettivo contro un domani che, per la prima volta si presenta come davvero ignoto. Una sorte di Sindrome di Stoccolma che li tiene incatenati alla nuova dimensione, quella del distanziamento sociale, del riparo, della tana, del rifiuto di un mondo nuovo. La paura di questo mostro invisibile ha lasciato segni e tracce difficilmente rimarginabili. Bisognerà mettere in campo un lavoro di cura che coinvolga tutte le agenzie educative per restituire a una generazione il senso del domani e il coraggio di guardare al futuro senza paura. Bisognerà prenderli per mano, accompagnarli verso la luce alla fine della tana, non certo per indicargli il cammino, ma per metterli di fronte alla loro libertà.


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