Senatore Pittella, lei ha svolto ruoli politici di primo livello in Europa e adesso siede nella commissione Finanze e Tesoro di Palazzo Madama. Secondo la sua esperienza, l’Italia si sta muovendo nel modo giusto per attivare i fondi del Next Generation Eu?

L’Italia sta facendo il suo dovere come Paese e ha rispettato tutte le tappe necessarie. A giugno siamo partiti con gli “Stati Generali” organizzati dal Governo, a metà settembre sono state rese note le “linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza” elaborate dal Comitato interministeriale per gli affari europei e pubblicata poi la nota di aggiornamento del Def.

Quindi tutto bene?

Stiamo facendo quello che è necessario ma a mio avviso va fatto emergere più efficacemente un programma sintetico e un cronogramma per la destinazione dei finanziamenti potenziali. Tra l’altro, sono ampiamente condivisibili gli obiettivi quantitativi indicati per alcune grandezze macroeconomiche: una crescita del Pil da portare annualmente all’1,6% almeno, investimenti pubblici da portare almeno al 3% del Pil, un livello di investimento in ricerca e sviluppo al 2,1% del Pil, un aumento del tasso di occupazione di 10 punti, ma non sembra che le risorse verranno collocate in un bilancio separato, come avviene in Francia e non c’è ancora un cronoprogramma settoriale.

Non crede ci si stia muovendo un po’ troppo in ordine sparso?

La concentrazione sarà fondamentale, non possiamo ignorare la lezione dei fondi strutturali gestiti malamente a pioggia da alcune Regioni e perciò inefficaci. La questione del Recovery non deve ridursi a uno scontro tra ministeri su chi gestirà il maggior numero di fondi. È doveroso avere un piano coerente e un’applicazione rigorosa nel corso degli anni, dobbiamo dimostrare che l’Italia sa agire e governare con rigore e responsabilità l’opportunità straordinaria messa a disposizione dall’Europa. Sono fiducioso che siamo sulla strada giusta.

Quando potremo beneficiare, credibilmente, delle prime risorse?

I tempi, ne siamo tutti consapevoli, sono una variabile fondamentale e ogni rallentamento costituisce un serio rischio di ritardare, se non uccidere in culla, una ripresa sostenuta e duratura per il continente e per l’Italia.

Dunque?

Devo dire che qualche settimana fa ero più pessimista sui tempi. L’intesa tra il Parlamento di Strasburgo e il Consiglio degli Stati membri sul bilancio europeo (la premessa della dotazione economica, oltre che politica al Recovery Fund) appariva in salita, come pure denunciato dall’ambasciatore tedesco a Bruxelles, Clauss, soprattutto per due ragioni: l’Ungheria e la Polonia chiedevano non fossero fissate condizionalità sullo stato di diritto, preoccupati che la stretta autoritaria nei loro rispettivi Paesi subisse un fermo connesso al piano di ripresa europeo, e dall’altro canto i paesi frugali pretendevano ancora garanzie sui rebates.

Da che cosa deriva la nota di ottimismo?

Nonostante l’ostruzionismo citato, qualche giorno fa è stato raggiunto un accordo preliminare al Parlamento nel dialogo trilaterale con Consiglio e Commissione. I deputati che negoziano per il Parlamento di Bruxelles hanno infatti condiviso con la presidenza tedesca del Consiglio UE le linee guida del bilancio dell’Unione 2021-2027 a cui è strettamente associato il piano da 750mld di euro di aiuti agli Stati membri post pandemia.

Quali sono i punti qualificanti dell’accordo?

Riguardano diversi temi chiave sul prossimo funzionamento dell’Unione Europea, temi su cui pure noi socialisti avevamo lavorato. Tra questi, una roadmap vincolante per l’introduzione di nuove risorse proprie, la centralità del ruolo del Parlamento europeo nella valutazione delle spese dei fondi europei relative ai Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza, vincoli di biodiversità e parità di genere e opportunità, il rafforzamento, nel quadro di bilancio pluriennale, di iniziative fondamentali relative alla salute, alla ricerca e all’Erasmus.

Sì, ma a quando la spesa?

Il secondo semestre del 2021 vedrà la prima straordinaria messa in circolo di energie nel sistema economico europeo e italiano e, se sapremo fare, sarà l’inizio di una grande ripresa rimbalzo per il nostro Paese.

La Francia ha redatto un piano molto favorevole alle imprese. Confindustria fa notare che qui da noi, invece, vince la politica dei sussidi. È una giusta osservazione?

Ascolto sempre con grande attenzione le parole di chi fa industria in Italia e dei suoi organismi di rappresentanza. Molti mi domandano perché trascorro parte importante delle mie giornate ad incontrare in commissione finanze o in qualità di vicepresidente dei senatori PD i ceti produttivi, i gruppi di interesse, coloro sulla cui carne viva, sui cui investimenti, sogni, ambizioni le scelte della politica incidono maggiormente. E colgo gli inviti di Confindustria, sovente molto saggi, altre volte un po’ ingenerosi, a fare di più sul versante dello sviluppo duraturo, sui grandi investimenti infrastrutturali e tecnologici, soprattutto in una fase di riprogrammazione come questa.

Quindi è giusto alzare lo sguardo sul medio e lungo termine…

Ma è anche vero che ci sono categorie produttive, lavoratori autonomi, artigiani e piccoli commercianti, che hanno bisogno di ristori urgenti. Sussidi necessari alla loro sopravvivenza. Ci sono medicine che vanno date urgentemente e che alleviano e salvano. Non bastano ma sono indispensabili.

D’altra parte, siamo in piena seconda ondata di emergenza. Il Paese è in semi lockdown, servono i “ristori” senza abbandonare la riflessione e gli strumenti per la ripresa e la resilienza.

Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha detto che nessuno perderà il lavoro per colpa del Covid. Vale anche per quando terminerà il blocco dei licenziamenti?

Il ministro Gualtieri, tutto il governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene, lavorano in questa direzione. Per noi ripresa, sviluppo, lavoro, dignità, redistribuzione non sono parole vuote né vanno declinate separatamente e ogni risorsa nazionale ed europea sarà impiegata per questo. Non solo per ridurre i danni ma per rilanciare un’economia più verde, più socialmente sostenibile, più innovativa tecnologicamente e competitiva nei mercati mondiali.

Una promessa o un auspicio?

Un auspicio e una direzione di marcia. Dopo una fase di emergenza in cui si possono impedire i licenziamenti ‘per decreto’, sarà solo una vera ripartenza economica che potrà segnare la ripresa occupazionale.

Perché non approntare subito le riforme che possono dare vigore alle forze dell’economia? Non rischiamo di perdere ulteriore tempo prezioso?

Condivido per l’intero la sua esortazione. E sostengo pubblicamente che il grande Piano per la Ripresa – istruito dalla Commissione e sostenuto, non senza patemi, da un accordo tra gli Stati in seno al Consiglio – è la più grande occasione di investimento in un’economia in crisi ma anche, di fatto, la più imperdibile occasione per l’Italia di riformare se stessa, generando quei cambiamenti strutturali di modernizzazione del paese capaci di riportarlo in linea con i paesi sviluppati secondo gli indicatori delle istituzioni internazionali. Abbiamo infrastrutture materiali e immateriali, riconversione digitale e ambientale, sanità e rete sociale che possono rappresentare il volano della ripresa. Ma ancora più serve innovatività nella visione.

Per esempio?

Per esempio, ho sostenuto pubblicamente in queste settimane – anche nell’aula del Senato – che bisogna avere coraggio, considerando che un terreno di svolta per il Recovery Fund in Italia possa essere quello fiscale e tributario. Una riduzione del carico fiscale è un obiettivo fondamentale: E noi sosteniamo non da oggi che esso debba partire dalla riduzione del cuneo sul lavoro e da un maggiore conforto per i redditi bassi, messi più a dura prova dalla crisi, nel rispetto della progressività delle imposte sancita costituzionalmente. Certo, non penso a una tassa piatta.

A che cosa pensa allora?

Credo che l’occasione del Recovery Fund vada onorata con elementi di grande innovazione e impatto duraturo: l’interoperabilità dei dati nell’amministrazione fiscale e tributaria, la dissuasione fiscale di comportamenti non ambientalmente sostenibili e una fiscalità privilegiata di filiera. Il fisco può essere una delle chiavi di volta e mi batterò a lungo per questo. E da gennaio partirà la indagine conoscitiva delle Commissioni Finanze di Camera e Senato sulla Riforma dell’IRPEF la cui legge data 1974. Contemporaneamente dobbiamo lavorare allo Statuto Europeo del Contribuente e intensificare le misure di lotta alla evasione e alla elusione e al riciclaggio, e il sostegno ai contribuenti che mostrano fedeltà fiscale.

Lei è anche medico. Ha senso continuare a rifiutare i soldi del Mes con la recrudescenza della pandemia in atto?

Ho detto in diverse occasioni cosa penso e lo ha fatto con chiarezza anche il mio partito. Noi siamo per utilizzare ogni risorsa possibile di matrice europea, a maggior ragione se impiegata per irrobustire sistemi sanitari, troppo a lungo sottoposti a tagli irresponsabili. La premessa che chiedono i nostri alleati di governo è che il Mes non sia un cavallo di Troia, anzi di Troika, cioè non nasconda sullo sfondo potenziali commissariamenti per l’Italia. Giusta prevenzione e mi pare che oggi, nella sua ultima architettura, ogni rischio del genere connesso al Mes sia superato.

Intanto i numeri esposti nella Nadef e inseriti nella legge di Bilancio sono diventati vecchi prim’ancora di essere approvati. Dovremo fare nuovo debito pubblico?

Per quanto, per molti versi fortunatamente, la parola debito non abbia come nella lingua tedesca la stessa radice di ‘colpa’, farne altro non è certamente una buona notizia per un Paese già appesantito come il nostro. Ma dobbiamo essere chiari. Ogni politica di restrizione, di rigore, rischia oggi di compromettere irresponsabilmente la vita presente e futura. Questo vale a maggior ragione su scala europea. Riattivare il Patto di Stabilità, come vorrebbero appena possibile i tecnocrati e i leader dei paesi ‘frugali’, come se la pandemia non ci fosse stata, è un’autentica follia.

Quindi la risposta è sì, occorre fare altro debito…

È inevitabile, e vanno riscritte le regole rendendo definitiva la sua messa in comune. Ci sono diversi strumenti per farlo e il successo degli Sure Bond e il probabile successo dei Recovery Bond ci dicono che siamo sulla strada giusta. Ci vuole una gigantesca iniziativa keynesiana di deficit spending e, quando l’economia tornerà a sorridere, servirà il rigore necessario per ridurre la spesa. Come ci insegna Keynes, infatti, quando ci sono elevata disoccupazione e pressioni deflazionistiche non è un buon momento per tagliare la spesa pubblica e aumentare le tasse. In periodi di crisi infatti il consolidamento fiscale porta a una crescita più bassa, a un aumento della disoccupazione e a gettiti fiscali inferiori. La ripresa economica richiede un sostegno fiscale esteso e politiche espansive.

Il Next Generation Eu è la risposta giusta?

Il Recovery Fund può essere il grimaldello per scardinare i dogmi più ostinati e riguadagnare un futuro progressista per l’Europa in cui sviluppo, equità e sostenibilità vadano di pari passo. Ovviamente, sia durante la prima che durante la seconda fase  non sono ammissibili sprechi, ritardi e meccanismi a pioggia o poco trasparenti.

Che cosa cambierà per l’Europa con l’elezione di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti?

Noi abbiamo una lente a volte deformata che, a seconda del nostro orientamento, ci fa intonare un peana o musicare un de profundiis ogni volta che in Usa cambia di segno la presidenza. Non è retorica: io sono e resto amico degli Usa a prescindere da chi sieda alla Casa Bianca, in ragione di un debito di gratitudine nei confronti di un grande Paese che ha sacrificato i suoi figli per la liberazione dell’Europa e, ancora più, in ragione di una comunanza di valori profonda, democrazia e libertà.

Adesso non vorrà mettere sullo stesso piano Trump e Biden…

È chiaro che quando il presidente è un democratico le affinità sono ancora maggiori con l’idea del mondo che la mia parte e la mia cultura politica propugnano. E sull’Europa l’approccio di Trump, come tendenzialmente lo è stato in politica estera, è stato unilateralista, tendendo a non riconoscere l’Unione come soggetto unitario secondo la logica di Kissinger (‘che numero di telefono compongo quando chiamo l’Europa?’) e a trattare Stato per Stato. E questo, nel caso di specie, per il timore che un attore regionale se saldato alla guida tedesca potesse emergere quale attore globale. Il sostegno alla Brexit, all’uscita dello ‘speciale’ alleato inglese dall’Europa politica, è stato fornito esattamente in questa chiave. Biden cercherà un approccio multipolare in politica estera e proverà a riconoscere all’Europa unitaria un ruolo più politico e a coltivare un approccio meno antagonista con la Germania e, allo stesso tempo, ancora più stretto con Francia e Italia.

Però su alcune cose Donald Trump aveva ragione. Per esempio, su un maggior impegno dell’Unione nella Nato…

Come dicevo prima, la presidenza Trump, a noi lontana su molti temi anche per sensibilità, ha pure lavorato su alcuni nodi strategici con piena ragione. Uno di questi la sfida a un nuovo Patto Atlantico. La Nato nasceva in chiave anticomunista, quale fronte speculare al Patto di Varsavia e così come quest’ultimo era una propaggine dell’Urss così la prima era a forte egemonia americana. Una egemonia che bastava a se stessa e che rendeva il resto del fronte quasi figura e sfondo, tanto da indurre la Francia e la sua grandeur a uscirne per un lungo periodo.

Ora il mondo è cambiato.

Tanto più l’alleanza va adattata alle sfide globali e rimodellata nella strategia geopolitica e nei carichi economici e militari. Paradossalmente, come Europa dovremmo vivere questa nuova stagione come un’opportunità di maggiore protagonismo in un duplice senso: realizzare finalmente la Comunità integrata della difesa e, a un tempo, dotarla di fondi importanti e di una sufficiente percentuale di impegni economici rispetto al Pil.

In questa logica, come vedrebbe un esercito europeo?

Voglio dirla tutta: le spese militari non alimentano solo gli strumenti di difesa del Paese e del Continente ma rappresentano il più importante volano di ricerca e sviluppo in tutti i più importanti ambiti ‘civili’ e per questo vanno rafforzate e indirizzate anche con riguardo alla nostra perla nazionale, Leonardo. Mi sento di poter dire che un ottimo lavoro in questa chiave sta svolgendo il ministro Guerini e aggiungo che, anche personalmente, lavorerò perché vi sia davvero un ministro europeo della Difesa. Quel tempo è arrivato.


Ne Parlano