“Contro la violenza sulle donne c’è bisogno di una rivoluzione civile come fu la lotta alla mafia negli Anni Novanta”. Valeria Valente è la senatrice dem presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio. Elenca i dati della relazione della commissione: “Sconcertante che una sola donna su sette denunci colui che diventerà il suo assassino, e che ben il 65% delle donne vittime di violenze non ne parli con nessuno, non si confidi neppure”.

Senatrice Valente, tanti strumenti, a partire dal codice rosso, per combattere la violenza sulle donne, e poi 89 donne ogni giorno le subiscono. Come può accadere? 

“Siamo un Paese dove c’è una forte asimmetria di potere tra uomo e donna, ancora più rischiosa oggi perché nascosta” .

Cosa significa asimmetria di potere e in quale relazione sta con la violenza? 

“Per troppo tempo abbiamo continuato a pensare – lo vediamo spesso scritto nelle sentenze – che gli atti violenti siano frutto di raptus, di una tempesta emotiva. Voglio premettere che gli stati passionali come causa per escludere l’imputabilità, sono stati cassati dal nostro ordinamento con l’articolo 90 del codice penale. Ma ancora leggiamo la violenza sulle donne come raptus. Non è così. Il gesto della violenza fisica o sessuale, fino alla tragedia dell’omicidio, non avviene all’improvviso, ma è l’escalation in una relazione segnata appunto dalla disparità di potere. Non esserne consapevoli ci fa approntare strumenti non sufficientemente adeguati dal punto di vista della lotta”.

Qualche dato della relazione della commissione parlamentare? 

“Ad esempio che il 34% degli uomini che ammazzano le donne si suicida. Lo cito per chiedere: quanto può contare l’inasprimento delle pene a chi è disposto a morire?

Allora quali strumenti? 

“Solo una battaglia di carattere sociale e culturale in grado di cambiare i termini della relazione uomo/donna può avere successo. Sociale significa promuovere l’affermazione delle donne nella sfera pubblica. Culturale vuol dire combattere e superare gli stereotipi e i pregiudizi che incasellano le donne in un determinato ruolo sociale”.

Solo una donna su sette aveva ha già denunciato il suo assassino? 

“Sì. Peggio ancora trovo il dato che il 65% di donne vittime di violenza non ne ha mai parlato con nessuno, né la sorella, né una amica. E’ una fotografia inquietante. Forse dovremmo assumerci le nostre responsabilità davanti a un fallimento: una donna tace o non denuncia perché non si sente creduta, ma etichettata, giudicata se non colpevolizzata”.

Cosa è riuscita e riesce a fare la commissione da lei guidata? 

“Intanto tenta di imprimere un cambio di marcia. Non c’è esclusivamente da inasprire le pene, ma bisogna lavorare di più e meglio sulla prevenzione. La violenza contro le donne è un fenomeno pubblico, non privato; strutturale e non emergenziale. Sul terreno concreto, nella relazione della commissione suggeriamo alcuni strumenti come le misure di protezione, a partire dall’uso più diffuso del braccialetto elettronico per gli uomini violenti. Maggiore efficacia delle misure cautelari e pre-cautelari, insomma”.

Alcuni femminicidi si sarebbero potuti evitare in questo modo? 

“Non credo si possa fare un discorso generalizzato, ma occorre vedere caso per caso. Però mi sento di dire che qualche risultato in più si sarebbe potuto ottenere”.

Alla vigilia della giornata internazionale, si fanno convegni e si parla tanto di violenza sulle donne. E poi? 

“Rischia di tornare il silenzio e se ne occupano coloro che lo fanno abitualmente, gli operatori. La campagna sul “1522”, il numero telefonico anti violenza, dovrebbe essere 365 giorni all’anno”.

I centri anti violenza hanno pochi fondi? 

“I centri anti violenza funzionano grazie all’abnegazione e alla enorme sensibilità, ma sono finanziati poco e male. Nella relazione della nostra commissione diamo indicazioni su come intervenire”.


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