È necessario e urgente fare un appello alla politica e alla comunità scientifico-accademica: non torniamo indietro da ciò che è stato conquistato con la legge 79 del 2022: il riconoscimento della dignità del lavoro della ricerca. È questo il punto oggi sotto attacco. C’è un dibattito regressivo, distorto, fuorviante. Una campagna contro il contratto di ricerca accusato di essere troppo costoso per il solo fatto che, allineandosi alla Carta europea dei ricercatori, finalmente assicura una retribuzione dignitosa e piene tutele (malattia, ferie, contributi). In un mondo normale il tema sarebbe: facciamo una battaglia per le risorse. Nel rovesciamento della realtà cui stiamo assistendo invece si invoca il ritorno alla precarietà come unico modo per salvare il sistema. Ai ricercatori viene detto: non ci sono soldi, potete restare solo precari, sottopagati e senza tutele. Vi togliamo diritti per il vostro bene. È un discorso irricevibile. Servono risorse per un sistema finalmente virtuoso. Senza una battaglia su questo, tutta l’università e la ricerca italiana sono destinate a una sconfitta culturale e politica che va contrastata. Come stanno facendo migliaia di ricercatori in mobilitazione che non vogliono tornare a un modello di università imperniato sullo sfruttamento e sul sottofinanziamento. Il Ddl Bernini e l’emendamento approvato in commissione Cultura del Senato che ne deriva sono proprio il modo per neutralizzare il contratto di ricerca. Viene introdotto un «incarico di ricerca» peggiorativo addirittura rispetto agli «assegni» Gelmini del 2010: prevede il conferimento diretto (senza concorso pubblico, in contrasto con l’art. 97 della Costituzione), nessuna retribuzione contrattuale ma una mera indennità, scarse tutele previdenziali e assicurative, nessuna garanzia di ferie o malattia; incarichi non riconducibili a un rapporto di lavoro subordinato, al di fuori dai Grant europei e incompatibili con i requisiti dei Marie Curie che prevedono un contratto subordinato pieno. Vengono reintrodotte sotto nuove vesti le stesse forme di precarizzazione che la riforma del 2022 aveva superato. Il contratto per noi non è intoccabile. Abbiamo presentato emendamenti per renderlo più flessibile. Ma il punto è non tornare indietro rispetto alla conquista delle tutele previste dalla natura di lavoro subordinato, come avviene in tutta Europa. Tornare ora alla precarietà prevista dal Ddl Bernini significa esporsi al rischio di procedure di infrazione europea, nonché di Reversal in relazione al Pnrr; e continuare a violare i requisiti base dei Grant europei; perdita di credibilità e attrattività a livello internazionale. In questo quadro, va risolta l’unica criticità oggettiva della riforma: l’impossibilità, oggi, di assumere con contratto di ricerca i vincitori di Marie Curie che non hanno il dottorato (ricercatori che vengono dall’estero in Italia e non italiani in Italia come viene detto per fare propaganda). Basterebbe una semplice deroga normativa. Abbiamo presentato emendamenti ma il Mur ha dato parere negativo. E questo dice molto sull’ipocrisia del dibattito. Oggi serve una scelta di campo. Salvaguardare un contratto che riconosce la dignità dei ricercatori è un atto di responsabilità verso il futuro del nostro sistema universitario e scientifico.
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