LA VIGNETTA DI GIANNELLI SUL CORRIERE DELLA SERA, DEDICATA A UNA RECENTE DIREZIONE DEL PD, ERA OGGETTIVAMENTE IMPIETOSA. Sotto il titolo «Direzione del Pd» l`editorialista per immagini del grande quotidiano disegnava un gruppo dí personalità della nomenclatura espressa dal centro-sinistra che si arrovella alla ricerca, ciascuna, di una direzione verso cui andare; e lo spaesamento è così palese da provocare un`evidente sensazione a dir poco, d`incertezza.
Da qui, forse, l`uscita del presidente Enrico Letta, che tra l`amaro e il bonario dirà «a noi serve un governo, non un Gruppo misto!». Quel casuale scambio di messaggi configurava un fenomeno che, dall`inizio della crisi, minaccia il Paese: il pericolo, cioè, non è più il pericolo, ma una mancante percezione del pericolo. I socio-analisti ne hanno dedotto una serie di effetti, tra cui l`ipotesi che il centro-sìnistra, così andando le cose, possa smarrire un po` della sua forza – in altri tempi si sarebbe chiamata propulsiva – sacrificando qualcosa di ciò che deve al suo essere «sinistra» rispetto a ciò che per converso guadagna il suo essere «centro».
Il problema, si capisce, gira intorno a questa domanda: c`è davvero una qualche perdita di identità sul versante della sinistra? Più d`uno risponde che Destra e Sinistra – morte le ideologie più radicali, di cui erano, seppure agli antipodi, figlie – sono andate l`una verso l`altra con la mediazione, per dirla in soldoni, dei rispettivi «centri»; all`incirca come le acque dolci e salate che s`incontrano pervadendosi nella reciprocità di un delta, dove l`una e l`altra imparano a convivere in uno stato, naturaliter, di necessità. Ma, fuor di metafora, la politica è quanto di meno íreníco sí possa ímmagínare perché – a priori, e in democrazia – concepisce e governa realtà potenzialmente sempre nuove, dovendosi tenere alle realtà che governa e alle possibilità che genera. Oggi, per esempio, si pone il problema di capire se il nostro governo sia a tutti gli effetti un organismo vitale, non precario né ritrattabile, oppure debba obbedire soltanto a un`idea di emergenza.
Le parole, si sa, hanno valenze non di rado ambigue, e la politica, specie se democratica, è sì materia dialettica e duttile, ma non tanto da tralasciare una qualità identitaria che è tutt`uno con la natura, e lo scopo, dei partiti e delle coalizioni, cioè dei ceti e delle aree in cui interessi pratici, civili, culturali, ideali hanno, ciascuno, un`origine, un progetto e una volontà particolari, con difformi motivazioni concrete, valoriali, interiori. L`interpretazione di ciò che è libertà e giustizia, sussidiarietà ed equità, privilegio e merito, parità e distinzione è un fattore, esso sì, discriminante rispetto a quanto rappresentano i viatici ereditati, cioè «le vischiosità che attardano addirittura le rivoluzioni», per dirla nientemeno con Lenin; e figuriamoci dovendo tutelare i valori identitari garantiti dalla democrazia.
Certo, Andrej Zdanov, che represse il dissenso ideologico sovietico, o Achille Starace, per il quale Mussolini aveva sempre ragione (mi scuso per le semplificazioni) ebbero le loro controverse ragioni, diciamo così, per distinguersi; ma ciò che non poté essere omologata fu, non a caso, l`opinione del filosofo russo Nicolaj Berdjaev secondo cui, così aveva scritto, «il comunismo è la parte dei doveri non compiuti dai cristiani»: quell`interprete temerario dell`identità venne espulso dall`Urss, nel `22, e poi rifiutato da varie cattedre laiche e cattoliche.
Adesso, forse perché sta per cadere il ventesimo anniversario della morte dí Federíco Fellini, anche la politica si è infilata nei sogni. Non uso l`argomento per sdrammatizzare: nel Libro dei sogni di Federico c`è una pagina dedicata agli anni in cui ci disegnò, insieme, in una stanza vuota, seduti intorno a un tavolino disadorno, aureolati da una serie di scritte in cui si alludeva alla crisi di ogni progetto anche del grande cinema che, nonostante l`aiuto della Rai, stava languendo. Non si pensava più nulla di incoraggiante, per cui valesse la pena anche di dannarsi, costretti ad aspettare, di notte, i sogni che di giorno non venivano bene. Ma a questo punto mi domando se per caso sognavamo quel pomeriggio, a Montecitorio, nella solenne riunione delle due Camere, ascoltando Giorgio Napolitano che veniva a dirci come intendeva accettare l`invito pressante del Parlamento a rimanere al suo posto, e ci fu quell`applauso lunghissimo, interminabile, tutti in piedi, tranne uno spicchio dell`Aula, con la ricchezza di una ritrovata speranza; persuasi di dovere quella straordinaria unità persino alle dure parole rivolteci dal presidente sui tanti errori anche nostri, della politica; e adesso siamo al punto di non capire se sperare fosse solo per quel giorno, mentre il governo, tra cento difficoltà nazionali e internazionali, oggi non più dall`orlo di un abisso, guarda al nostro destino facendo la sua parte. Giudicato con rispetto per lo sforzo che, anche grazie al Pd, il Paese sta rice- vendo da mezzo mondo.
Suona estranea a un`idea rispettosa della politica non politicista quella che si chiede se questo governo, pur dichiaratosi lealmente tenuto a esaurire un compito a tempo determinato, secondo un interesse di carattere generale, «dovrà cadere per colpa di Berlusconi o del Pd!» Se questo fosse sul serio il dilemma, dovremmo ripetere il laico elogio dello sperare lasciatoci da Elias Canetti: «Certe speranze, quelle pure, che nutriamo non per noi stessi, quelle il cui adempimento non deve tornare a nostro vantaggio, le speranze che teniamo pronte per tutti gli altri, per i nati da cattivi o da buoni mae- stri, da guerrieri o da miti apostoli – come se ciascuno di noi fosse il segreto progenitore di tutti i nipoti – quelle speranze bisogna nutrirle e proteggerle (…) perché nessun inganno è altrettanto sacro e da nessun altro inganno dipende, a tal punto, la nostra possibilità di non finire completamente sconfitti».
Facciamo durare queste parole fino a quando – chiuso un congresso con le sue regole, tenute le primarie con sfide aperte, uscito il segretario dal più razionale degli auspici, e dagli scenari che i partiti saranno in grado di produrre potremo dire al Paese chi siamo e cosa vogliamo; garantendo per ciò stesso, a noi per primi, «ciò che non siamo e ciò che non vogliamo».

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