All’indomani, per chi ne era uscito indenne, il disastro fu come lenito da una calda e gialla mestizia novembrina. Dalla massa di terra e detriti che avevano riempito l`inizio della strada spuntava un cartellone di lamiera da cui, qualche giorno prima, gli uomini del Comune avevano staccato la crosta degli ultimi manifesti: un sassofono, una crema solare, un aperitivo. Da quando l`ottobre aveva restituito gli alberi non più oppressi da cataste di biciclette, gli appartamenti affittati, il postino che tornava a chiamare solo nomi di casa, sul muraglione della ferrovia erano riapparsi i vecchi dolori: Zanoni Elvira, 63 anni, diplomata ostetrica, una prece. Il manifesto apparteneva alla lontana maniera di partecipare la fine: si ricominciava a morire uno alla volta. Il bombardamento fece passare la morte di bocca in bocca, il dolore assumeva via via una così naturale loquacità che dimenticavamo ogni altro modo di viverlo; come a teatro, nei vicoli, nelle preghiere era ritornato ‘parole’. Ma non avevano più il suono di prima; dicevano le stesse cose, però la guerra non sapeva che cosa, il giorno prima, volevano dire.

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