Credo non sia mai esistito un quotidiano che avesse raggiunto i ‘lettori’ attraverso le finestre. Eppure accadde nella nostra città, subito dopo il passaggio del fronte. Il ‘Publiphono’ era un notiziario sonoro, diffuso da sette altoparlanti, il numero dei palazzi in grado di reggere una staffa in pieno centro. In quel piovoso novembre del 1946, alle 19 e un minuto primo – sessanta secondi dovuti all`emozione – aspettammo gli spalancamenti delle finestre, poi ‘uscì’ il giornale parlato. Il suo distributore era il vento che, in qualunque parte tirasse, lo portava fino a un capo della città. Un quotidiano con le parole come uccelli fu una sorpresa, al tempo stesso, severa e pedagogica. Il suo volar via garantiva la nostra impunità, finché non ce la prendemmo con i ‘bidonari’ – che praticavano il teppismo prodotto dalla guerra – esortandoli pubblicamente a cambiare vita, cioè mestiere. Ma intanto che si declamava, d`improvviso li vedemmo entrare nel nostro, si fa per dire, auditorio. Quando fu chiaro in quale abisso avessimo già un piede, all`istante decidemmo di dar loro la parola. Quella tavola rotonda rimarrà nella memoria civica come un tentativo alto, oltre che ameno, di fondare eticamente il significato di quella città colma di macerie: e chissà che non abbia anche influenzato il futuro destino del pluralismo.