Signor Presidente, onorevoli colleghi, se non fosse già affermata l’iniziativa di rimanere, più che legittimamente, abilitati ad ascoltare le poche cose che potrò aggiungere io a quelle così esemplari ed esaustive – come si usa dire – del presidente Grasso, avrei chiesto io stesso di ascoltare queste poche aggiunte, che vanno a collocarsi nei ricordi personali. Immaginavo che sarebbero state di quell’ampiezza, di quella profondità e anche con quel sentimento del rilancio di un atteggiamento morale, civile, politico, che avrebbe fatto di un poeta anche un testimone del proprio tempo. Sarei stato io per primo a chiedere il permesso al presidente Grasso di autorizzare l’emiciclo ad ascoltare, come si fa nei casi più normali che si possono dare, l’intervento di un vostro collega.

Mario Luzi nacque nel 1914, a Firenze (sarò costretto a ripetermi), dove, seppure con lunghi intervalli, è di preferenza vissuto. È morto – come ci ha ricordato il presidente Grasso – il 28 febbraio 2005 e una serie di circostanze (certo non addebitabili a noi) ci hanno costretto a rinviare, con una punta anche di sofferenza, questo nostro incontro con lo spirito di Mario Luzi, che è rimasto a segnare tanta parte della questione cosiddetta italiana, per quello che riguarda il rapporto tra la cultura e la storia, tra l’animo e la politica, tanto da indurci a credere che oggi fosse veramente la giornata più adatta, non avendo un calendario particolarmente oneroso da osservare. Sono felice, quindi, che io possa tentare di aggiungere qualche piccolo dato.

Dal tempo de «Il Frontespizio», di «Letteratura», di «Campo di Marte», riviste fiorentine di punta degli anni Trenta, Luzi aveva contribuito alla ricchezza della cultura italiana di oltre mezzo secolo. Fin dagli anni dell’università si era legato d’amicizia con il gruppo di coloro che sarebbero diventati i protagonisti di quell’intenso periodo creativo, di ripensamento e difesa rispetto alla prevalente retorica del regime di allora, che si dette e conserverà l’aggettivo «ermetico». Ha poi perseguito il suo processo di chiarificazione culminante nell’accoglienza, sempre più larga in Italia e all’estero, tributata alle sue inquiete, drammatiche interrogazioni, insieme, del reale e del profondo. Voce tra le più alte della poesia del Novecento, è stato un severo, autorevole interprete di ciò che storia e vita offrivano alla coscienza concitata di quell’epoca, colma di allarmanti presagi.

Ho avuto l’occasione, per la familiarità che intercorse presto tra noi (immeritevolmente da parte mia), di frequentare Luzi e di capire come fosse un uomo straordinario, che potesse anche concepire l’idea, pur non incoraggiandola personalmente, perché era un uomo di grande discrezione, di far parte un giorno del mondo cosiddetto politico, in cui poter portare qualcuna delle sue idee.

Ricordo anzi di avere appreso da lui una frase, messa a posto in termini un po’ più giornalistici e quindi perdendo gran parte del suo alone: una volta lui ebbe a dirmi, parlando della politica (e la cosa mi sorprese grandemente e peraltro era curioso che proprio io fossi più disponibile ad un giudizio critico), che non c’è mai tanto bisogno di politica come quando è la politica ad autorizzarci a voltarle in qualche modo le spalle. Mi fece molta impressione, ma non mi stupì perché in tutta la poetica di Luzi – se lasciamo un po’ appartata in questa nostra breve disamina la sua storia di poeta – ha avuto una grande influenza la poesia civile. È la cosa di cui si parla meno; non se ne parla – ed è gravissimo – nelle scuole. Accennerò in parte a tale questione.

Questa premessa pressoché bibliografica è priva di un dato (parrebbe una forma di pettegolezzo, ma è ad un livello tale per cui mi sento di potere ribadire lo sdegno che ha attraversato il nostro Paese): l’assenza del Nobel. È un caso non solo italiano, investito dalla stessa sorte toccata per esempio a Borges, alla cui esclusione furono applicate considerazioni giudicate, pur autorevolmente, pretestuose. Poiché, in definitiva, si tratta di un’altezza poetica civile e morale che qui, oggi, ci chiede di rispettarne una generale convalida, ho creduto di dovere dar conto di questo impegno, soffermandomi su ciò che Luzi stesso ha spiegato di sé, riferendosi a ciò che chissà quanti di voi, onorevoli colleghi, gli avreste chiesto per trarre una conoscenza più diretta e partecipe della sua personalità poetica, culturale, umana, ma anche politica, sociale e storica. È quel che ho fatto, in tempi diversi, per un bisogno di oggettività da quando egli stesso giudicò di poter parlare con me in nome di una semplice dolce amicizia.

Ed ecco il primo argomento della lunga interrogazione. Lo intrattenni, anzitutto, sul suo tema primario: il mondo come luogo anche dell’anima, i frammenti della nostra esistenza, la realtà e l’immaginazione con i loro ardui confronti, tutto richiamato, avvalorato, consacrato nel ciclo naturale e spirituale che muove dalla creazione, se é vero che Dio, come dice un suo verso, é «disseminato e sparso nella moltitudine del mondo». Eppure il mondo è disseminato anche di violenze, ingiustizie, negazioni. Dovrà essere il mistero a spiegarci la contraddizione? La storia prende per sé tutta la realtà e decide legittimamente di tutto, a volte anche di Dio? «La persistenza del male» – fu la risposta di Luzi – «è il primo scandalo dell’uomo di fede.

Ma su questo tema hanno battuto la testa tutte le più alte cime del pensiero religioso e laico, assillate dalla propria eticità. Sebbene si possa sensatamente argomentare che la coscienza umana sia andata via via affinandosi – e per questo la consapevolezza del negativo è divenuta più suscettibile – tuttavia il male non solo perdura, ma, in un certo, senso prolifica e si moltiplica. Sono due realtà incomunicanti o è la prova cui viene sottoposto il libero, originario arbitrio umano, ad essere ora vittorioso ora, troppo spesso, destinato alla sconfitta?». La domanda era lunga, complessa, anche un po’ contorta, forse; la risposta fu esemplare per la secchezza e la semplicità.

«Scienza e tecnologia: lo stesso loro progredire genera gli argomenti della loro contestazione. Sarà mai possibile dire: ‘Ecco, adesso c’è quel che serve, fermiamoci’?». Realista la risposta del poeta: «Bisognerà sapere quale importanza può assumere la presenza umana nel quadro disordinato della coscienza moderna o se un brutale determinismo avrà la meglio e imporrà che tutto quanto è possibile per ciò stesso è da farsi, indipendentemente da una reale utilità umana».

«’Questo che noi vediamo’, lei scrisse», gli ricordai, «’è un periodo di trionfale scientismo, che fa prevalere il come sul quando e sul perché’. Se è così, in che cosa si cresce e si arretra?». «Quel pericolo, che durava da molti decenni, per la verità, va declinando: lo scientismo non è più così trionfale, molti disinganni e troppi dubbi l’hanno incrinato; è cresciuta la consapevolezza che il non sapere si accresce in proporzione geometrica con il sapere e viceversa. In ogni caso, la scienza non è possibile lasciarla al diavolo. Non è con la diffidenza ed il sospetto che si ricompone il dissidio, insorto in tempi non aperti, non equamente ispirati e non è con il tacito pregiudizio che si risana la dismisura prodottasi tra bisogno e attesa reale, da un lato, e una neutra disponibilità, dall’altro. Credo che questo dramma si sia perpetuato proprio per essersi lo spirito ritirato dal terreno del confronto, lasciando ampio adito alla sua negazione, fino ai fanatismi: proprio di misure di parità siamo stati troppo poveri, e non solo nel nostro Paese».

«Il terribilismo dei futurologi», gli ricordai, «mette a morte anche le poesia: lei crede che possa esservi qualche buon ragionamento per confutare le loro profezie?». E Luzi: «Forse la tradizione del ‘genere’ e l’arte retorica, che hanno accompagnato la poesia fino a noi, correranno pericoli di estinzione, ma in quanto istanza vitale, che ascende alla forma e cerca la sua reintegrazione nell’ordine universale, non avrà mai fine».

«Perché ha perduto molta energia, nonostante ciò, la poesia civile? Forse si chiama in un altro modo oggi? Ha assunto un diverso linguaggio e sta magari dove non la vediamo?». «Proprio così: la poesia sta dovunque c’è poesia ed è umiliante doverne fare un genere, una ‘specialità’».

«Oggi è più effimero il rapporto tra poesia e realtà», insistetti. «Non saremmo quelli che siamo se non ci fosse stato Leopardi, anche se la maggioranza di noi lo ignora; la realtà, a mio modo di vedere, non è un dato, ma un punto d’arrivo, sempre così provvisorio che va ricercato e definito giorno per giorno. A questa definizione ci chiama e ci spinge proprio la poesia, che è la più ricca, la più sicura ‘autrice’ della realtà».

«Come giudica la realtà venuta via via formandosi sotto i nostri occhi, non solo nel campo economico e politico, ma anche sociale, culturale e morale? Poiché il puro sdegno non basta, in quali sentimenti e in quali convinzioni bisognerà fidare, per non sentirsi laicamente e spiritualmente fuori, quindi sconfitti, da questa realtà? Per essere chiari, come si potrà riavere un mondo che ci corrisponda più di quello d’oggi?». «Comincio a pensare», dice Luzi, «che il senso chiaro della realtà possiamo averlo solo avendo ben fermo un parametro interno, sia esso un retaggio, sia esso una volontaria costruzione morale: non avendolo, in genere, né dell’uno né dell’altra specie, si scivola e si finisce in quelle sabbie mobili in cui le distinzioni non sono nette, ma tutto è pressappoco uguale a tutto e dunque realtà e realtà si confondono.

Cosi, pur non avendo palesemente trasgredito, men che meno rubato né assassinato, ci siamo tutti quanti più o meno consapevolmente adattati a vivere nell’illegalità: diffusissima illegalità, lassismi, corruzioni, ricatti, scandali e compromessi favoriti e tollerati nella regolarità delle procedure, dall’escamotage alla frode e tutto ciò, non di rado, con varie forme di impunità. Ho avuto le mie indignazioni – mi disse Luzi – ho anche alzato la voce perché la protesta arrivasse a chi, con i mezzi dovuti, poteva opporsi allo sconcio mercato nel quale vengono gettati i beni più gelosi della nostra storia comune, le sofferenze dei padri e quelle, fino a ieri inedite, dei figli. Lo strumento è ancora spuntato, e quindi inefficace; bisogna perciò fidare nella pazienza, nel lavoro a cuci e scuci dei muratori, degli educatori, dei sinceri catechisti, esclusi i retori e i tribuni. Occorre ritrovare l’origine etica di una malattia divenuta sociale, in cui prevalgono solo i criteri dell’utilitarismo, del pragmatismo, del facilismo; e occorre altresì ritrovare daccapo i fondamenti, ora che sempre più spesso crollano edifici di cartapesta».

Emblematica la scuola mentre si fa difficile il ruolo di chi, in questo Paese, conserva, anche nella scuola, umiltà e coraggio. Eppure, non a caso, e non solo per cavarne un moto di spirito, Ennio Flaiano ebbe a dire: «Tutto quello che non so, l’ho imparato a scuola».

Sembra di riascoltarlo, mentre dal suo scranno di senatore a vita ci parlava una decina d’anni fa. Con queste parole, che sembrano pronunciate oggi, si spense una voce tra le più ragionevoli e abrasive del tempo che ancora stiamo vivendo: non derive liricheggianti, sospese fra terra e cielo, ma la storia come luogo anche dell’animo. E qui sono certo che aggiungerebbe subito: «perché la storia non debba essere ciò che tutto divora chiudendo ogni discorso, perché altrimenti saremmo di fronte a un’altra divinità, la quale susciterebbe più orrore di quanto, nella sua povera e tragica incongruenza, merita l’esistenza umana… ».

Mario Luzi ha partecipato a questa grande disputa immane anche poeticamente e politicamente, tra l’indugio nelle oscurità di un simbolismo ermetico che esaltasse il valore puro della parola, e, come ricordato con straordinaria puntualità dal presidente Grasso, quello evocativo di Ungaretti, Quasimodo, Gatto, Bigongiari e, in campo critico, Carlo Bo. Poi i drammatici trapianti, qua e là persino epici, della poesia civile dei giorni nostri, cioè della nostra storia, pur senza rinnegare, mentalmente e interiormente, l’alone orfico – cioè senza tempo – dell’immaginazione.

Questo ci ha aiutato a capire che l’uomo e il poeta avevano conosciuto una continua agonia – nel senso etimologico di lotta – quella che Geno Pampaloni, in Palazzo Vecchio, il giorno in cui conferimmo a Luzi il prestigioso «Premio Campana», chiamò «una guerra dolorosa e trionfale, che ha in sé la sofferenza e la speranza, la solitudine e la comunione, la disperazione e il bisogno di non morire del tutto tra le ombre della vita e della storia». Qui, infine, è Luzi a riprendersi la parola: «Perché tutto non finisca per appartenere alle verità occultate, come accade con l’uomo, nelle pieghe, spesso infide e indivise, delle cedevolezze nostre e della nostra storia». Grazie del vostro ascolto


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