Anticipo subito che si tratta di un argomento marginale, accessorio, il quale trova la sua rilevanza, se ci riesce, in una serie di circostanze fortemente simboliche. Giorni fa, quando cominciava a precisarsi l`azione governativa volta a rimuovere lo stato psicologico in cui vibrava ancora il verdetto elettorale europeo – per tanti versi coincidente con l`ormai percettibile sensazione di avere finalmente trovato il bandolo della «crisi» – alla stazione Termini accadeva un fatto.
Riceveva una singolare risposta la notizia di uno sciopero ferroviario nelle ore del serale ritorno a casa, punte cruciali del grande riflusso pendolare. Era accaduto qualcosa di inusitato: l`avviso degli altoparlanti – che nei giorni andati sarebbe costato un diffuso allarme per il conseguente disordine del palinsesto ferroviario – aveva prodotto nei viaggiatori una subitanea, imprevedibile accettazione del grave disagio; come se dai risultati del voto europeo, appena sanciti, l`opinione pubblica avesse tratto la sensazione di un cambiamento finalmente reale.
Eppure le cifre dello scenario nazionale segnalavano, anche quel giorno, una disoccupazione ferma al 13%; il settore manifatturiero aveva toccato la rinuncia
di 120.000 imprese, perdute con i posti di lavoro calcolati in oltre un milione di persone; un giovane su due era a spasso, e via così. E nondimeno si coglieva il sentimento di una incipiente normalità, come se un nuovo criterio di giudizi avesse già conferito un`altra faccia all`antipolitica, lasciando trasparire un salto significativo dei suoi effetti pratici e psicologici. Non a caso, mentre il premier era a Bruxelles per intraprendere incontri, verifiche e impegni, si tornava a parlare di consumi e di crescita con il lontano, incoraggiante linguaggio dello «sviluppo sostenibile», le ritrovate parole di Galbraith, di Peccei e persino di Eremburg, lo scrittore ucraino
che rievocava lo scandalo atroce delle grandi carestie dovute, in Cina, al grano che allora l`America bruciava per conservare il prezzo politico del pane.
Ora, nuovi problemi ponevano altre gravi contraddizioni: nel Paese più ricco dalla Terra il potere sempre più forte del credito bancario, la durezza dei fenomeni legati all`economia popolare, per esempio dei mutui e dei sistemi assicurativi, la distribuzione delle risorse punitive in basso e favorevoli ai criteri finanziari in alto, generava una mastodontica speculazione in grado di restituire alle «cupole del grande capitalismo» le risorse di una manovra blindata dai diagrammi dei più potenti consigli
d`amministrazione del mondo.
Con quali decisioni affrontare una «crisi» che non era più solo questo o quel pericolo, ma la mancata percezione del pericolo? Quando, e come, avremmo conosciuto nomi, strategie, manovre di colossi finanziari che interpretano interessi tra i più influenti della Terra?
Del resto, quando la «crisi» fosse non soltanto un epifenomeno, ma anche un`equazione che coinvolge banche, industrie, mercati – con un corollario di poteri protetti dalle loro impunità – come impedire un processo equilibratore governato da nomenclature, e persino teoremi, pressoché intangibili? Procura un solidale anche se tardivo e magro sollievo l`idea apparsa su un grande giornale nostrano di istituire
una «cultura dell`informatica», sin dalle scuole primarie, per aggiornare conoscenze e principi. Non nego che sarebbe augurabile l`avvio di una pedagogia sociale approfondita ed efficace, cioè non più al di fuori delle nostre energie singole e collettive o al di là dei nostri attardati codici informatici; non augurabile a nessuno, invece, l`idea di rincorrere l`interesse del proprio Paese senza poter realmente valutare le solidarietà, le esperienze e le garanzie comunitarie, cioè non facendoci sopraffare dalle strettoie imposte alle «economie più deboli», accettando l`implicita disciplina da noi disattesa quando sistemi come quello tedesco, in altri tempi, dettero inizio a un risoluto, tempestivo processo riformatore. Per competere in uno scenario che ci vede in affanno rispetto alle esperienze accumulate nei Paesi cosiddetti più «al sicuro» è dunque necessario un intervento garante, in primis, del lavoro e dell`equità, della ricerca e della crescita, prime prove del drastico riaccredito di una politica da cui pretendere una consapevole, rinvigorita responsabilità. Quanto alle psicologie sindacal-ferroviarie, sarà un effetto marginale, ma è bastato uno sciopero tenuto
tra i marmi millenari dei Fori imperiali e i nuovi lucidi binari della stazione capitolina per cogliere la sensazione di volerci mettere subito al passo con una diversa velocità, affrontando le grandi questioni in base a ciò che ci unisce, non a quanto divide, di
fronte all`interesse nazionale.
Certo, rimarrà lecito chiedersi se la metafora dei pendolari romani esprima un maggior o minore realismo rispetto a soluzioni rigidamente algebriche, se cioè il «valore del poco», caro ai pragmatici e ai mistici, corrisponda all`importanza di una fiducia, vivaddio, raggiunta e interpretata; oppure se il temerario giudizio sul valore subliminale della scelta dei pendolari non sia stato e non potesse essere altro che il segno di una misteriosa obbedienza, quasi kafkiana nel suo rumoroso silenzio. E infine se l`aver continuato a discutere di politica all`interno dei treni – colmi, ma fermi – dichiarasse un civismo inaugurato da una nuova relazione tra istituzioni e cittadini, partiti e cittadini, sindacati e cittadini. E ciò prima che lo sconcio veneziano deturpasse ulteriormente una grande immagine e una già pericolante reputazione del Paese.
Non ho mai avuto trasporti ideali – e quindi neppure ferroviari – solo per la protesta! Mi fido di più, in genere, della razionalità del reale, che sarebbe ancora una buona regola, ma è augurabile che l`esplicita prova democratica del voto europeo ci abbia
ricondotti alla voglia di far rivivere la politica, specie quando sembri allontanarsi dalla nostra vita. Riuscirvi vorrebbe dire intitolarsi la scelta fondamentale del dialogo, della solidarietà, del futuro, ma anche addestrarsi a una più mobile e convertibile natura del consenso, come puntualmente ci ha insegnato il dinamismo insito nel ballottaggio. Franco Fornari, che rese pedagogica e insieme politica la socio-analisi, disse «E vero, la società viene prima, ma è la politica a governarla. Garante può essere solo una forte democrazia». Dopo che un autorevole, concreto, ostinato cuci e scuci ci avrà tratto dall`orlo di incombenti voragini, solo risvegliando una più pacata, ragionevole e in definitiva democratica coesione del Paese anche lo sciopero di una sera comune, seguito dalla festa mattutina e repubblicana del 2 giugno, può avere aggiunto qualcosa di salutare che oggi si fa capire in un altro modo.

Ne Parlano