“Siamo alla vigilia del più grande trasferimento di ricchezza della storia fra una generazione e l’altra”. L’ottica che propone il senatore/scienziato ci fa intravvedere uno scenario sorprendente.
“Il problema del prossimo futuro nel nostro paese, come in gran parte d’Europa, non è la paura dell’impoverimento, su cui soffia la destra, ma la certezza di un arricchimento disordinato”. Andrea Crisanti, valente ricercatore che nella fase più acuta della pandemia acquisì una grande popolarità per la sua capacità previsionale rispetto alle dinamiche del virus, non ha il gusto della battuta provocatoria per pura audience. La sua storia di scienziato, che per quasi 50 anni ha lavorato nei laboratori dei principali istituti di ricerca del mondo, ultimo l’Imperial College di Londra dove ancora insegna, lo ha abituato ad appoggiare ogni sua affermazione, anche quella che appare più temeraria, a solidi dati e documentate esperienze. Proprio il suo rigore e la sua abitudine a leggere in termini predittivi i dati gli fecero comprendere, con largo anticipo, sull’insieme del sistema sanitario italiano, già dai primi di gennaio del 2020, che si stava annunciando una catastrofica epidemia, mentre ancora si parlava di casi isolati. Dal suo ospedale, dove era appena arrivato da Londra, a Padova, come primario della clinica universitaria di virologia e malattie infettive, riuscì tempestivamente a procurarsi una cospicua scorta di reagenti che gli permise di procedere a Vò, il comune veneto dove si registrarono le prime vittime, a un controllo di massa per identificare i portatori sani del contagio, cosa che limitò drasticamente i decessi, che invece si moltiplicarono a pochi chilometri, a Codogno, in Lombardia, dove non si attuò quella strategia.
Lo ritrovo, da allora, senatore del Pd, eletto nella circoscrizione europea, dove ha sbaragliato il campo, surclassando la destra. E subito gli chiedo, dopo due anni di mandato, che bilancio fa di questa esperienza così lontana dalla sua attività di ricercatore. La smorfia con cui mi risponde non lascia spazio ad ulteriori commenti. Ma non è deluso come si rivelano molti dei tecnici e intellettuali prestati alla politica, che puntualmente si lamentano che “qui non si conta niente”, frustrati per una certa marginalità nelle relazioni con il mondo esterno. Crisanti, proprio per la sua storia di scienziato, è abituato a stare in una squadra, a essere uno dei componenti di un lavoro complesso e composito. Non è la visibilità o rilevanza che gli manca. Semmai potremmo dire è mancanza di linearità e certezza nel percorso che separa ideazione, progettualità e realizzazione del progetto che appare differente nella politica, almeno nella esperienza istituzionale: si potrebbe fare molto, ma a volte è difficile valorizzare competenze e connetterle con le attività parlamentari. La sua più che frustrazione è rabbia: si potrebbe fare molto ma non si riesce a collegare attività parlamentare e competenze. In particolare, e qui parla il professore più che il senatore, non riusciamo ad afferrare le tendenze, il trend che ci annuncia come stia cambiando il mondo.
È il buco nero che sta ingoiando i partiti, e soprattutto appanna la possibilità a sinistra di esprimere una proposta politica organica e articolata: in una congiuntura in cui stanno mutando tutte le categorie dell’organizzazione sociale se non si afferra il senso della trasformazione, collegando analisi ed organizzazione, ci troviamo fuori fase, incapaci di capire da dove arrivino gli schiaffoni quando si perde e per quale prodigio invece si inverte la tendenza, quando si vince. “Come sinistra abbiamo la responsabilità di capire da dove viene e cosa nutre l’ondata di destra che sta scompaginando tutti i sistemi politici, arrivando a contestare direttamente la stessa democrazia rappresentativa” mi dice per dare uno sfondo alla sua critica.
Le emergenze quotidiane non possono inibire la ricerca e quella capacità di far funzionare un cervello collettivo che deve essere il partito. Un insegnamento che Crisanti ricava proprio dal mondo della scienza, dove proprio nei momenti più drammatici si deve avere la freddezza di leggere l’evoluzione della malattia, senza inseguirla pedissequamente. Spiega ancora che la capacità della destra di attirare consensi si nutre della delusione indotta dall’ormai strutturale paralisi dell’ascensore sociale, un terreno di coltura su cui attecchiscono le campagne d’odio, i messaggi che creano disagio paura, e scaricano su un nemico istituzionale una rabbia che comunque non incontra soluzioni. Più che il disagio è la mancanza di opportunità, e soprattutto la plausibilità di un sogno, di un cambio di marcia, che frustra i giovani. In questo paese, dagli anni Ottanta, diciamo dopo il primo scossone del Sessantotto, sono tutti inchiodati alle proprie posizioni di partenza. I privilegiati in alto, che difendono la rendita di posizione, e tutti gli altri intorno che cercano vie e mezzi per entrare nel recinto magico. È anche il fallimento di una marcia nelle istituzioni della sinistra che non ha cambiato equilibri né favorito l’accesso di ampi strati inferiori ai vertici professionali e produttivi.
Nulla scalfisce gli equilibri di partenza. Perfino la pandemia sembra passata come acqua su vetro. I soldi del Pnrr se ne stanno andando in spesa sociale più che in investimenti, e il sistema rimane fermo. Come possiamo cambiare gli equilibri? Come sinistra davvero pensiamo che lo status quo possa spingerci al governo solo perché la gente si indigna per Gennaro Sangiuliano o Daniela Santanchè? L’ottica che propone il senatore/scienziato ci fa intravvedere uno scenario sorprendente.Tutti guardano all’impoverimento incombente, alle scandalose sperequazioni, che però non producono rivolta, come chiede Maurizio Landini, perché, mi interroga, perché questa disparità fra i ricchissimi e i medio poveri non si traduce, come è stato in altre fasi della storia, anche recente, in movimenti collettivi, in mobilitazioni categoriali o territoriali? Perché, risponde prima che io possa interloquire, quanto sta accadendo prelude a fenomeni di imprevedibile e quanto mai disordinato arricchimento, persino i poveri votano da ricchi. Lo guardo non senza stupore e forse anche con una diffidente sorpresa. “Siamo alla vigilia del più grande trasferimento di ricchezza della storia fra una generazione e l’altra. Vedremo un passaggio di beni e risorse dalla nostra generazione a quella dei nostri figli i quali, per la contrazione demografica che è in corso, si troveranno a spartirsi una quantità di ricchezze che si concentreranno in un numero di mani minori, diventando ancora più ingenti. Il conto è presto fatto, mi dice leggendo la mia sorpresa: i nostri figli, che sono molti di meno di quanti non eravamo noi alla loro età, potranno disporre di una quota maggiore di fortune rispetto a quelle che abbiamo ereditato noi. Per altro la nostra generazione ha incrementato ulteriormente i beni ricevuti dai nostri genitori, come il nostro tenore di vita dimostra. Così fra una ventina d’anni, diciamo, si troveranno a disporre di una quota di beni rilevantissima, fra immobili e denaro, che, appunto, si divideranno fra relativamente pochi eredi”.
Lo scienziato prende il gessetto e scrive alla lavagna: fra 20 anni saremo in Italia, meno di 50 milioni, mentre oggi siamo poco più di 60 milioni. Questo vuol dire che ognuno dei futuri eredi in media avrà a disposizione il 20% di risorse in più. Certo che vale sempre l’apologo di Trilussa circa la media fra chi mangia due polli e chi nessuno. Ma la base da cui partiamo sarà di almeno un pollo a testa. Sappiamo bene che almeno due terzi della popolazione oggi vanta una disponibilità di risparmio famigliare e beni immobiliari di un certo valore. Quasi il 90% è proprietario di una casa, spesso di due. Le famiglie d’origine di una coppia di giovani hanno una dotazione di almeno una casa e di circa 30/40 mila euro che si concentreranno nella coppia di figli unici che raddoppierà il proprio patrimonio. A una cultura politica di sinistra, che dovrebbe essere abituata ad analizzare le condizioni materiali come causa dei comportamenti sociali, queste trasformazioni dovrebbero imporre uno sforzo di riflessione ed elaborazione particolare. Come si comporteranno queste generazioni premiate da questo capriccio della demografia? Saranno incentivati ad usare i mezzi disponibili per investire in formazione, innovazione e intrapresa o per arroccarsi invece nelle proprie rendite, difendendo lo status raggiunto? E ancora: in un’Europa che sarà sempre meno centrale nelle relazioni economiche e meno capace di attrarre risorse e abilità, la difesa del proprio patrimonio, di una rendita di posizione che per quanto ineguale, renderà una porzione consistente della popolazione titolare di beni e valori superiori al proprio tenore di vita precedente, che processi innesterà, dove sarà sospinta l’opinione pubblica?
Perciò la politica oggi è fondamentale, dice Crisanti, facendo intendere che ha scelto di cambiare campo, passando dal vertice di apparati quali l’università di Padova, o la guida di un reparto ospedaliero, all’impegno parlamentare in una forza di opposizione, proprio per giocare questa partita, in campo aperto. Ma si vede isolato in questo ragionamento. “L’alternanza generazionale è vista come una scadenza lontana, l’analisi dei meccanismi che determinano i rapporti di proprietà non sembra un terreno di lotta politica. Ma già incide sui comportamenti sociali in termini di aspettative. Insomma continuiamo ad avere lo sguardo corto”. Le conseguenze sociali ed economiche del cosidetto autunno demografico non sono state ancora analizzate compiutamente, la politica non lavora su questi dati. Nel lontano 1340 la peste ha spazzato via metà della popolazione europea innescando cambiamenti sociali ed economici senza precedenti. La sinistra deve iniziare a capire che la sua base sociale oggi coincide proprio con una parte di quei giovani, nei quali si concentreranno ricchezze che non hanno guadagnato. Con loro bisogna parlare, organizzarli, lavorare per fare in modo che scelgano di investire in conoscenze e innovazione quanto gli arriverà e non limitarsi a proteggere la propria posizione ereditata. Ovviamente a questi giovani bisogna dare in cambio la possibilità di partecipare alle scelte, di essere protagonisti delle decisioni. Con loro, con i loro codici e linguaggi, bisogna ingaggiare le grandi battaglie per cambiare il modo di funzionare del paese a partire dalla scuola e dalla sanità, che sono i motori di un diverso modello di statualità.
A proposito di scuola sono in atto innovazioni tecnologiche che stanno trasformando la formazione e la crescita delle nuove generazioni. Mentre noi ancora coltiviamo il mito dello studio in presenza, sta esplodendo il sottobosco delle università telematiche. È un settore quanto mai scivoloso dove il malaffare si intreccia con le convenienze dei singoli, e dove il clientelismo crea dei ras che si stanno imponendo sulla scena economica e politica nazionale. Noi, la sinistra dobbiamo civilizzare questa modalità di formazione che intercetta il bisogno di milioni di giovani che non possono bruciare risorse fondamentali in affitti e trasferimenti. Dobbiamo valorizzare e promuovere come sistema universitario pubblico un’offerta di grande trasparenza e qualità di corsi on line pubblici, che sia competitiva e alternativa a quanto si trova sul mercato per lo studio a distanza. Questo può spingere gran parte di quei giovani, che saranno i destinatari delle case che abitano i loro genitori, a investire prioritariamente nella propria formazione, risparmiando sulla spesa della frequenza tradizionale dei corsi per poi investire sulle specializzazioni successive. Mentre ci spacchiamo la testa per sostenere le realtà del Mezzogiorno, da anni favoriamo il trasferimento di miliardi di risparmio delle famiglie del sud verso le tasche dei proprietari immobiliari del nord sotto forma di canoni di affitti, spesso per altro in nero, e spese di mantenimenti, presso le università settentrionali. Solo a Padova, torna di scena lo scienziato, ho calcolato che almeno 50 milioni all’anno sono accumulati dai proprietari delle stanze affittate ai fuori sede.
Il tempo della ricreazione è finito e deve tornare alla routine in aula. Come fu per la pandemia, Crisanti combina indignazione civile ed esperienza personale, arrivando ad elaborare una visione che vorrebbe, questa volta mettere al servizio della politica, della sinistra. Il vento naturale della storia non soffia nella nostra direzione. Bisogna forzare gli equilibri, essere più discontinui, più eretici, sia nei contenuti che nella forma dell’organizzazione. Siamo troppo composti e pettinati, mi dice prima di andarsene. Del resto diceva un grande leader popolare come Giuseppe Di Vittorio, il padre della Cgil, che se non si vince nel punto più alto dello sviluppo non si difendono nemmeno i cafoni. Crisanti ci indica dove sia secondo lui oggi quel punto.